I supertaster esistono e io sono tra quelli. Ma chi ha stabilito che siamo “superassaggiatori“, sentiamo cose che i palati umani non sono in grado di percepire? Come ci permettiamo di consideraci degustatori migliori del 75% della popolazione?
Queste ed altre considerazioni sono comuni qui, nella redazione di Dissapore, gli altri autori che non perdono occasione di sottolineare la condizione di supertaster in cui, per fortuna e mio malgrado, mi trovo. Rosicano, perché sanno che non potrebbero fare le Prove d’Assaggio meglio di me, e la loro invidia è ben riposta, perché la mia ipersensibilità ai sapori è scientificamente provata.
Mi dipingono come una sorta di Medioman in gonnella che si palesa magicamente ovunque ci sia un contraddittorio gastronomico e sentenzia cose in virtù delle sue super papille ipersensibili. Mi sfottono con grande soddisfazione e insomma, direi che si meritano questo spiegone.
Per l’occasione scomoderò la scienza, quella che mi ha chiarito le idee su faccende sensoriali sperimentate sin da bambina in maniera assai inconsapevole, un tempo derubricate al de gustibus; parlo di Italian Taste, il progetto di ricerca dalla SISS – Società Italiana di Scienze Sensoriali a cui partecipai come volontaria (o meglio cavia), nato per indagare le preferenze alimentari degli italiani. Lo studio, svolto in collaborazione con diversi laboratori accreditati dello Stivale, ha testato un campione rappresentativo di 3000 volontari e ormai da tempo sono stati presentati i risultati della ricerca.
Proprio durante una delle due sessioni di test previsti dal protocollo ha avuto conferma di avere appunto una maggiore sensibilità ai sapori, ho scoperto insomma di essere supertaster. Ma cosa significa esattamente e quali sono i parametri utilizzati per indagare questa maggiore sensibilità?
I ricercatori utilizzano test sono di vario tipo: alcuni individuano variabili fisiologiche e genetiche, altri testano la risposta sensoriale all’assaggio di alcuni prodotti alimentari (gradimento e intensità), altri si basano su questionari volti ad indagare le abitudini alimentari e alcuni tratti psicologici. L’approccio multidisciplinare serve a capire come e quanto queste variabili siano più o meno correlate tra loro.
In particolare, per stabilire se un soggetto sia super taster si utilizzano due test: il conteggio delle papille fungiformi, e il PROP test. Entrambi questi aspetti (o anche solo uno di questi) sono correlati ad una maggiore sensibilità ai sapori, quindi possono influenzare alcune scelte alimentari.
La conta delle papille fungiformi
Cioè quelle papille che contengono i cosiddetti bottoni gustativi e quindi sono preposte a percepire i sapori. La loro forma a fungo e struttura sporgente le rende facilmente identificabili colorando la lingua con del colorante alimentare blu. In questo modo le papille rimangono rosa-rosse, mentre le altre si colorano. La lingua viene quindi fotografata e un microscopio digitale fa il resto del lavoro.
Il numero può variare significativamente da individuo a individuo, si può osservare infatti un numero molto limitato di 1-2 papille fino a 100 papille per cm2.
“I soggetti con un più alto numero di papille sono più sensibili ai sapori. Alcuni studi hanno infatti dimostrato l’effetto del numero di papille sulla percezione e il consumo di alimenti, quali alcolici, prodotti dolci a base di latte, pane, caffè”.
Le femmine hanno, in media, più papille fungiformi
Dal campione preso in esame è emersa una maggiore presenza di papille fungiformi per cm2 nelle femmine (23) che nei maschi (21), presenza che tende a diminuire drasticamente con l’avanzare dell’età -e con essa la sensibilità ai sapori “soprattutto nei maschi tra i 30 e i 40 anni, mentre nelle femmine segue un andamento più graduale”.
Insomma l’universo femminile mostra in media una maggiore presenza di recettori del gusto rispetto ai maschi ed un più graduale deperimento con l’età (ma restiamo umili). In tutto ciò io mi pongo nella media (secondo i dati forniti dal laboratorio in cui feci i test), quindi di fatto mi trovo nell’intervallo centrale della distribuzione che raccoglie il 50% dei partecipanti. Il restante cluster, quindi sotto e sopra la media, si suddivide equamente la restante fetta della torta.
Dal PROP test puoi capire se sei negato per l’assaggio
Il PROP test, invece, è appunto utilizzato per indagare la sensibilità genetica ad alcune sostanze amare, definita appunto PROP status. Chi è in grado di percepire l’amaro indotto dal PROP (una sorta di abbreviazione della sostanza utilizzata per fare il test) ha una maggiore sensibilità alle sensazioni percepite in bocca, quindi non solo al sapore amaro, rispetto a chi invece non è in grado di farlo. Semplificando, si tratta di assaggiare alla cieca acqua deionizzata contenente questa sostanza opportunamente dosata, riportando su una scala l’intensità della risposta sensoriale all’amaro.
In base a questa risposta si valuta il PROP status dell’assaggiatore, che risulta non taster se percepisce l’amaro con un intensità meno che moderata (circa il 25% della popolazione); medium taster se percepisce amaro con un’intensità compresa fra moderato e molto forte (circa il 50% della popolazione) e super taster se percepisce l’amaro con intensità superiore a molto forte (la restante fetta).
La scala di intensità che misura il PROP status va da zero a più infinito, per dire. Per darvi un’idea di risposta sensoriale posso dirvi che in alcuni casi non vi è quasi percezione di amaro, mentre un super taster sente l’irrefrenabile desiderio di sputare e sciacquarsi la bocca, come se avesse assaggiato veleno. E non è un amaro simile a quello che potete trovare nel caffè o una Double IPA, ma qualcosa di decisamente più intenso e sgradevole.
Il 34,6% delle donne è supertaster
Anche in questo caso, secondo i dati forniti da Italian Taste, le femmine risultano avere maggiore sensibilità ad alcune sostanze amare rispetto ai maschi. Il 34,6% delle femmine e il 21% dei maschi è risultato super taster, mentre il 28% dei maschi e il 24% delle femmine è non taster. Proprio sottoponendomi al PROP Test (avevo fatto lo stesso test in un’altra occasione peraltro) ho sperimento la poco felice condizione dell’ipersensibilità ad alcune sostanze amare, quella che appunto mi colloca in quel 34%.
“Questa è una delle ragioni per cui per i maschi è più facile orientarsi verso cibi dal sapore più deciso e magari caratterizzato da sensazioni che possono essere più difficili, come l’amaro e l’astringente, tanto comuni in ortaggi e vegetali con un elevato potenziale salutistico. La situazione cambia se invece che alle verdure pensiamo ai dolci. In questo caso la predisposizione genetica a percepire più intensamente i sapori conta molto poco e nella scelta giocano un ruolo importante anche fattori come l’attenzione alla dieta e alla salute.”
Che tradotto significa che l’universo femminile, pur avendo maggiore sensibilità e quindi tendenzialmente minore propensione a scofanare verdure amare e astringenti, è più incline alla punizione e al controllo (della dieta appunto) che alla gratificazione, e quindi cerca comunque di preferire cibi salutari, tra cui appunto le verdure.
Com’è essere una supertaster
Signora mia, mangio quasi tutto sa? Sopratutto le verdure, anche quelle amare. Bevo spremute di luppolo e caffè senza zucchero, insomma mi piace l’amaro, lo adoro. Solo a volte mi trasformo in Superqualcosa e la faccenda nel mio caso è più evidente con alcune sostanze amare. Non saprei nemmeno come evitarle, si palesano talvolta nel cibo che mangio solitamente, ma sono così potenti da stordirmi.
Come quella volta, in quel bel ristorante vicentino, dove feci un degustazione in cui era presente un piatto con del radicchio trevigiano (una cosa davvero esotica per una veneta) e dopo pochi secondi mi si dipinse sul volto la smorfia del disgusto, e chi mi accompagnava iniziò a guardarmi come fossi scema, non capendo evidentemente per cosa mi stessi lamentando. Eccolo lo scomodo mantello della super taster, vallo a spiegare te che mi piace il radicchio ma a volte mi fa morire dentro.
Potrei sintetizzarla così la mia condizione di super taster, un’ipersensibilità che sperimento solo a volte e solo con alcune sostanze amare presenti in alcuni ortaggi. Allargando la maglia ad altri sapori direi che in effetti non amo i cibi troppo saporiti, tendo ad usare pochissimo il sale, l’umami spinto di alcuni piatti “mi da nnoiah” e ho qualche problemino anche con grassi e dolcezze sostenute. Mi distruggo solo di acido (detta così suona male me ne rendo conto), ho insomma una preferenza per quegli alimenti in cui l’acidità è il sapore protagonista.
Se state pensando sia una condizione legata ad un fattore culturale vi correggo subito; da bambina intingevo il prosciutto cotto nell’aceto, esattamente come inorridivo mangiando i cetrioli “troppo amari”. Insomma, non è cambiato granché da allora, credo proprio per ragioni fisiologiche, quindi genetiche, le stesse che a volte mi fanno indossare, mio malgrado, il mantello da Medioman in gonnella armata di forchetta e smorfie di disgusto.