Ormai non c’è più niente da fare: dici biodinamica e la prima cosa che ti appare in mente è un cono ricurvo pieno di cacca. Troppo facile però prendersela con l’idea un po’ buffa del cornoletame, insieme al cornosilice la pratica più incomprensibile, ma anche quella più citata, quando il discorso cade sui metodi agricoli ispirati a Rudolf Steiner. Il discorso si è infiammato quando nel maggio scorso una legge è stata accusata dalla senatrice Elena Cattaneo di equiparare agricoltura biologica e biodinamica, e quindi, dato che si trattava della legge che tutela il biologico, di legittimare e addirittura finanziare delle pratiche stregonesche.
Ma il discorso è, come s’immagina, un po’ più complicato: propugnare metodi alternativi e naturali di coltivazione non significa credere nella magia; difendere il valore della scienza non implica dover aderire all’ideologia e alle pratiche dell’industria alimentare. Come abbiamo cercato di spiegare qui parlando con il professor Maurizio Gily. Di recente il discorso è ritornato a galla perché è uscito un bel reportage di Stefano Liberti su Internazionale, un viaggio all’interno di realtà biologiche e biodinamiche, dal quale di fatto emerge che non abbiamo a che fare con invasati dello spiritualismo ma con gente che cerca di far funzionare le cose.
Equiparare però biologico e biodinamico ora sembra un’operazione che ha lo scopo opposto: non legittimare la seconda ma screditare la prima. Quando invece il vero problema è la resistenza a mettere in discussione i metodi e i risultati dell’agricoltura convenzionale, intensiva, industriale. Lo va scrivendo da un po’, qua e là, con pazienza, Giacomo Sartori: noto come autore di romanzi e racconti (da Tritolo e Bestiario fino ai più recenti Sono Dio e Baco), è però agronomo di professione, e appassionato conoscitore della questione. Ci siamo sentiti e gli ho fatto alcune domande, prendendola nell’unico modo possibile, alla larga.
Partiamo dal principio: la dicotomia biologico / convenzionale. Noi ce le figuriamo spesso come due cose distanti e distinte, in teoria è così ma poi nella pratica, in campo, la differenza non è così feroce, come dici tu in un pezzo su Micromega di qualche tempo fa. Il punto comune è l’obiettivo: tecniche che limitino gli impatti e producano cibi sani con il minore apporto di energia possibile. Possiamo dire che l’una ha bisogno dei metodi dell’altra. Esagero?
Biologico e convenzionale erano due compartimenti stagni quando si era meno coscienti dei guasti ambientali causati da quest’ultimo, che poteva andare avanti per la sua strada senza porsi problemi. Di fronte all’ampiezza dei danni e dei pericoli connessi, della presa di coscienza generale, e delle stesse politiche europee, ora invece anche l’agricoltura più produttivista è costretta ad avere uno sguardo più ampio, a prendere in considerazione le falde acquifere, le emissioni di gas a effetto serra, le morie degli insetti e via dicendo, in altre parole a avere un approccio più ecologico, che è quello che sta dietro agricoltura biologica. Quindi non si può negare che ci sia un avvicinamento, e che quest’ultima in molti casi diventi un modello. La grande sfida è sapere se l’agricoltura convenzionale troverà dei modi per diminuire gli impatti e gli enormi consumi di energia, cosa più facile a dirsi che a farsi. Il pericolo è che faccia solo finta, come mi sembra stia succedendo in particolare in Francia, con un grande proliferare di marchi che molto spesso non garantiscono nulla, e tolgono legittimità a quello dell’agricoltura biologica, che invece è controllatissima e rappresenta una vera garanzia.
I danni dell’agricoltura industriale/convenzionale non c’è bisogno di ripeterli: da quelli ambientali a quelli sulla salute, da quelli etici legati al benessere (malessere animale) a quelli, che arrivano alla fine ma non sono trascurabili, sulle proprietà sensoriali di ciò che ci arriva in tavola. Secondo te qual è il più grave?
Credo invece che si debbano ripetere, e si debbano conoscere molto meglio, anche per esperienza diretta, vedendo, toccando, annusando. Altrimenti rimangono vaghi e per certi versi irreali, molto lontani dalla quotidianità delle persone. Credo che è impossibile preoccuparsi davvero e operare per un qualcosa che non si conosce, e senza che ci sia un legame anche emozionale, affettivo. È molto più facile domandare a un cittadino di mangiare meno carne, se gli si fa visitare una porcilaia industriale, un mattatoio, le vasche con i reflui. La nostra cultura ha erto a zone di pregio i parchi e le zone meno contaminate, per le quali si fanno magari migliaia di chilometri in aereo, mentre quelle coltivate sono viste come banali e senza valore, e quindi senza interesse. Qualche settimana fa ho attraversato in treno la Borgogna in una giornata magnifica, e le campagne con i campi arati e le colline erano davvero bellissime, mi mozzavano il fiato, ma nessuno alzava la testa dallo smartphone, nessuno le degnava di uno sguardo. Per quanto riguarda l’ultima parte della tua domanda mi sembra importante sottolineare che in Italia più che in altri Paesi c’è una grande attenzione alla qualità e al gusto dei prodotti agricoli, e agli ingredienti dei piatti cucinati, questo invece è un aspetto per me molto positivo, che va coltivato. Cura dei prodotti e paesaggio vanno assieme, lo sappiamo bene per il vino, ma a ben vedere è vero per qualsiasi coltura, perfino le più umili, come le lenticchie e le fave.
Inquadrare le cosa in una prospettiva storica e anche preistorica, cioè guardando un lasso di tempo più ampio, è una di quello operazioni mentali che ti cambiano la visione. E ti portano a ragionare così: “Dire che questo tipo di agricoltura è insostenibile non è un giudizio di ecologista, è prendere atto che – ricalcando il significato letterale del tempo – essa non può perdurare nel tempo. Essa mina infatti a passi di corsa le condizioni che l’hanno resa possibile per una brevissima frazione del lasso temporale che ci separa dalle prime coltivazioni nel Neolitico. Di questo passo domani non si potrà produrre quello che si produce oggi, quali che siano i progressi delle tecnologie”.
Però: provo a fare l’avvocato dei diavolo. Non è già stato detto tante volte che “così non si può andare avanti” e “il modello non è sostenibile”, e ogni volta è arrivata un’innovazione che ha superato il problema?
Il problema è che abbiamo bisogno di soluzioni efficaci subito, non tra una generazione, e queste soluzioni miracolo purtroppo non ci sono. Abbiamo una fede smisurata nelle nuove tecnologie, perché in altri campi hanno dato risultati strabilianti in tempi rapidissimi, basta pensare alla medicina. Queste daranno verosimilmente degli apporti positivi – anche se finora il bilancio è davvero misero – all’agricoltura dei Paesi molto avanzati, non negli altri. La grandissima parte dell’agricoltura mondiale è un’agricoltura contadina, spesso di sussistenza, e dobbiamo mirare ad aiutare e migliorare quella, perché la chiave di volta per sconfiggere la fame e la malnutrizione è questa, tutti gli esperti sono d’accordo. Ogni volta che l’umanità dispone di una nuova tecnologia, si illude che con quella risolverà tutti i problemi. Nel ventesimo secolo è successo in particolare con la radioattività, e poi con il nucleare. Nei due casi si diceva – e leggendo adesso si fanno grassissime risate – che si sarebbero potute avere applicazioni mirabolanti nei campi più diversi. Mi sembra che stia succedendo adesso qualcosa di analogo riguardo alle tecnologie informatiche e all’ingegneria genetica applicate all’agricoltura. Ma attenzione, sto parlando delle soluzioni miracolo, non del contributo della scienza, che sarà assolutamente indispensabile. Intendendo però però per scienza un buon coordinamento tra ricerca, assistenza tecnica e politiche pubbliche, quello che manca in genere è quello, non le risolutive scoperte della nostra mitologia tecnicista.
Biologico ha altri difetti, va incontro ad altre critiche: rese minori, costi maggiori, utilizzo di preparati come il verderame. C’è chi si spinge a dire che il plus dell’agricoltura biologica sia la mera convenienza economica: siamo disposti a pagare di più il marchio.
Ripeto, il biologico si basa su una visione ecologica, per essere precisi agro ecologica, delle colture, senza la quale la prossima generazione non potrà sfamarsi, in un quadro di diminuzione delle energie fossili e di generalizzato impoverimento dei suoli. Questa è una grande discriminante di ordine generale, ben più importante di tutto il resto. L’agricoltura biologica produce in modo ecologico, e funziona, quando quaranta o cinquant’anni fa quasi tutti i professoroni di agronomia sostenevano che non sarebbe stato possibile. Ma certo è giusto andare a vedere nel dettaglio le sue debolezze e i suoi problemi: per esempio il fatti che dal punto di vista della legge non si tratta di altro che di una serie di protocolli, che possono avere dei limiti, o possono essere aggirati. Fare però di tutte le erbe un fascio, enfatizzando piccole magagne, mi sembra che sia fuorviante, e impedisca di impostare una discussione seria.
E attenzione a parlare di rese, perché nel biologico sono tendenzialmente minori, ma non sempre. Ho visitato una grande azienda bio qualche settimana fa in Piccardia dove le rese dei fagioli erano superiori a quelle dei vicini in convenzionale. Dipende molto dalle colture. E comunque non possiamo più parlare solo di rese, senza conteggiare nel bilancio anche i danni ambientali. Quelli chi li conteggia, chi li paga? Se tu levi la marmitta alla tua auto questa andrà più veloce e consumerà di meno, però ci sarà un danno sonoro e chimico all’ambiente. E poi c’è la qualità bassa o bassissima dei prodotti, e i relativi costi sanitari: anche quelli, chi li paga? Le classi meno abbienti, costrette a comprarsi la farina e il latte meno cari, e che sono le più colpite dall’obesità? Ma certo, l’agricoltura bio richiede molto spesso più manodopera, questo è innegabile. Per produrre però cibi più buoni e più sani. C’è chi per accecamento ideologico o pregiudiziale sostiene il contrario, come la professoressa Cattaneo, ma per il primo aspetto basta guardare alle analisi che vengono fatte regolarmente da vari organismi in Italia e fuori, e per il secondo direi di affidarsi all’esperienza di ognuno di noi, per certi prodotti, per esempio i finocchi e l’insalata, secondo il mio modesto parere non c’è paragone. Ma appunto lascerei libero corso al giudizio di ognuno, ben sapendo che molto spesso meglio di un piccolo orticello, per la qualità, non c’è.
Scrivi: “La fame del 9% della popolazione mondiale non dipende in alcun modo dalle rese per unità di superficie: l’Europa ha problemi cronici di sovrapproduzione. E sono le sovvenzioni alle agricolture dei Paesi ricchi che mettono in ginocchio quelle dei Paesi poveri, affamando le loro popolazioni”. Ci spieghi bene sto meccanismo perverso?
La visione che abbiamo noi dell’agricoltura mondiale è molto viziata dalle pratiche che noi conosciamo, e che diamo per scontate. Quando invece la maggior parte dell’agricoltura, quella che nutre la maggior parte delle persone, se guardiamo le statistiche, è una agricoltura contadina, spesso legata alla sussistenza. E la fame e la sottoalimentazione sono legate a questa. L’unica leva che abbiamo per ridurle è agire su questi modi di coltura che ai nostri occhi sono molto arcaici, partendo da quello che sono. In molti casi un semplice arnese manuale o una piccola miglioria cambiano radicalmente le cose, l’intelligenza artificiale e la genetica non sarebbero di alcun aiuto. Il problema è che la libera concorrenza che abbiamo imposto al sud del pianeta, in nome del libero scambio, ha schiacciato in molti casi le agricolture locali, che non potevano competere con i prodotti europei e nordamericani che ricevono enormi sovvenzioni statali (libero scambio!), e che hanno rese per persona impiegata molto alte (paradossalmente la resa economica è invece bassa, visti gli enormi input richiesti). Nella maggior parte dei casi la risposta è stata il ripiegare verso colture tropicali per l’esportazione, quali il caffè il cacao le banane eccetera, con l’effetto di creare una sovrapproduzione, che ha abbassato a livelli insostenibili i prezzi. In molti casi un grande aiuto verrebbe da forme di protezionismo per le derrate alimentari: quelle stesse misure, voglio ricordare, che l’Europa e gli Stati Uniti hanno applicato dopo la seconda guerra mondiale per difendere le proprie agricolture. Ma attenzione, non c’è solo la fame, la FAO stima che tre miliardi di persone non hanno accesso a una alimentazione sana, che paradossalmente avrebbe dei costi di produzione minori. Ormai anche l’obesità, e le malattie connesse, sono un flagello.
E veniamo alla Cattaneo e in generale alle posizioni di quegli scienziati che si pongono in maniera poco aperta e dialettica, sul genere “la scienza non è democratica” (che molto spesso si scrive così e si legge “io so’ io e voi non siete un cazzo”). Parto ancora da quello che scrivi: “Le posizioni più “riduttiviste”, sono in genere espresse da scienziati – in particolare ingegneri e genetisti – che per formazione non sono abituati a osservare la natura in termini di equilibri ecosistemici, non hanno dimestichezza con i fondamenti dei processi naturali in gioco (dinamica della sostanza organica del suolo, ciclo degli elementi nutritivi, dinamica delle popolazioni degli insetti nocivi e benefici…), e ragionano come se i dettami e i modi di vedere dell’agricoltura industriale fossero dogmi assoluti, e non precetti (riduttivi) con una loro storia (in genere recente) e dei precisissimi interessi soggiacenti”.
La cosa che mi sembra rilevante, e che tutti ma tutti spesso dimentichiamo è che “l’agricoltura è per definizione una alterazione degli equilibri della natura” (anche se questo apre poi a speculazioni di tipo addirittura filosofico, sul reale valore della dicotomia natura/cultura, sul fatto che anche l’uomo è natura e quindi qualsiasi cosa fa ecc, sul fatto che piante e animali domesticati ormai da millenni sono esseri e specie viventi che però senza l’uomo non sopravvivrebbero…)
Prima di tutto c’è il fatto incontestabile che essere dei grandi specialisti in una branca scientifica non vuol dire che si possa poi andare a sindacare in altri settori nei quali non sappiamo niente. Io non mi sognerei mai di dire qualcosa, magari orecchiando spezzoni a destra e a manca, sulla genetica molecolare. La professoressa Cattaneo, che nel suo campo è una grande scienziata, parlando di queste cose riproduce con una grande serietà argomenti da bancone di bar, senza alcuna esperienza diretta. C’è poi un aspetto più profondo, legato al fatto che l’agricoltura riguarda saperi estremamente diversi, con scale incomparabili (dalla dimensione regionale di chi studia l’idrogeologia o il clima, a quella microscopica di chi studia la microflora), e con linguaggi molto diversi: per esperienza diretta so quanto sia difficile mettere assieme e fare dialogare i vari specialisti (senza contare le differenze nazionali e delle varie scuole all’interno di ciascuna disciplina). Credo quindi, vista la miriade di interrelazioni e processi coinvolti, ci voglia dell’umiltà, anche quando si padroneggia molto bene il proprio campo. Quanto al concetto di natura, ultimamente molti studiosi, a cominciare dall’antropologo Philippe Descola, lo hanno messo in discussione, mostrando che è molto recente, che non esiste nelle culture tradizionali, e che apre la via, come tu suggerisci, a considerarci al di fuori dai fatti dell’ambiente, che diventa un oggetto sul quale agire, completamente succube al nostro volere. Il problema è che nelle discussioni come questa non abbiamo un termine di rimpiazzo, anche se appunto “natura” si porta dietro dei significati che in certo qual modo sono all’origine dei problemi che vorremmo descrivere, e quindi non è il più idoneo.
Nel recente pezzo su Nazione Indiana citi il reportage di Internazionale che ha il merito di mostrare all’opera i biodinamici, e far vedere che non sono stregoni. Però mi pare di capire che ci sia qualcosa che non ti sia piaciuto.
Non mi sembra corretto mettere sullo stesso piano chi ha argomenti solidi e concreti, e ha le mani in pasta, come alcuni validi produttori biodinamici, e chi invece senza conoscere quasi nulla del settore agricolo li critica, sposando tesi pretestuose e pregiudizi senza fondamento, che non so perché hanno ancora una grande eco mediatica in Italia (in altri Paesi succedeva in passato). L’articolo si tiene equidistante tra queste posizioni, tra l’altro sostenendo che l’agricoltura tradizionale sta con la scienza, e quelle biologiche e biodinamiche no, il che è falso, e mantiene il dibattito mediatico a un livello molto basso. La vera questione, che effettivamente divide il settore agricolo, ma in maniera molto più complessa e sfaccettata, è a proposito del contributo che possono dare la ricerca agricola, quasi assente in Italia, e le politiche pubbliche, per andare verso una agricoltura più ecologica, sia per il convenzionale che per il biologico: quali investimenti, quali direzioni, quale passo, quali priorità, quali tecnologie, quali problemi. Questo dovrebbe essere il vero tema del dibattito mediatico, in accordo con la realtà dei fatti, con le posizioni dello stesso ministero dell’agricoltura e con la consapevolezza degli addetti al mestiere. Noi stiamo qui a riesumare una diatriba di cinquant’anni fa, lasciando parlare cosiddetti esperti che non sanno nulla, ma proprio nulla, del settore, e intanto la crisi climatica imperversa e il piano di rilancio non prevede alcun sostegno alla ricerca agronomica.
A un certo punto dici che in Africa la rivoluzione verde non ha funzionato. Questa cosa è acclarata, incontestabile?
Acclaratissima e incontestabile, lo dicono tutti i testi, anche se poi le analisi possono differire. I metodi proposti – sostanzialmente varietà migliorate con alte rese, ma che richiedevano concimi chimici, pesticidi e irrigazione – non si adattavano alla culture e usanze e strutture economiche locali, e non hanno dato risultati. La rivoluzione verde è nata in realtà in Messico, su iniziativa americana, e poi è stata esportata in India, anche lì per contrastare lo spauracchio del comunismo, da dove si è propagata con buoni successi, ma creando problemi devastanti, in gran parte dell’Asia. L’agricoltura non può prescindere dalle specificità ambientali e culturali locali.
Del convenzionale bisogna considerare anche un fattore psicologico e tecnico, che poi diventa politico: le formule (concimi, pesticidi) svuotano anche una tradizione di conoscenze e cultura, e in più tolgono al contadino centralità, lo rendono un operaio alienato in catena di montaggio.
Questa condizione di alienazione in moltissimi casi si avvicina in realtà sempre di più a una schiavitù, visto che i redditi diminuiscono, e non consentono più di avere una vita degna, e di trovare una moglie disposta a compartire quella miseria. In Italia è forse meno evidente, perché ci sono gli ammortizzatori che conosciamo, ma in altri Paesi la situazione è drammatica. In Francia ogni giorno un agricoltore si suicida, dicono le statistiche. E tutto ciò nonostante l’Unione Europea dedichi un terzo del suo bilancio a aiutare l’agricoltura.
D’altro canto, bisogna capire anche gli agricoltori convenzionali e le strenue battaglie che fanno, dici a un certo punto.
Se vogliamo cambiare l’agricoltura dobbiamo aiutarla e sostenerla, in particolare con la ricerca e l’assistenza tecnica, non possiamo solo chiedere agli addetti al settore, che appunto spesso sono già stressati e in crisi, di fare i salti mortali per adattarsi alle limitazioni – in particolare meno pesticidi – che imponiamo dall’alto. Dobbiamo sapergli proporre delle valide alternative, altrimenti si opporranno con tutte le loro forze, e la spunteranno. Paradossalmente adesso sono loro, che per anni sono stati appunto diseducati a una visione a lungo termine che potremmo chiamare già ecologica, che era quella dell’agricoltura tradizionale, i peggiori nemici di una svolta ecologica. E ripeto, il piano di rilancio non prevede nulla in questo senso, tutto è centrato su un riammodernamento in senso industriale delle aziende.
A proposito di ricerca agronomica, si fa un gran parlare di agricoltura di precisione: ma un aspetto che non viene considerato abbastanza, scrivi tu, è la diversità dei suoli.
L’idea alla base dell’agricoltura di precisione è ottima, vale a dire adattare le pratiche agricole alle variazioni anche infime del territorio coltivato. Il problema è che essa è nata all’interno di una visione riduttivista, insomma solo chimica, per cui per pratiche agricole si intendono in realtà le concimazioni chimiche, ignorando le conoscenze del territorio che le macchine non potranno mai sostituire, in particolare appunto sul suolo, e che richiedono studi, intelligenza, tempo. C’è chi pensa, e sono di solito ingegneri che non sanno nulla di ecologia e di agronomia, di poter risolvere tutto con le strumentazioni GPS e i sensori. Magari! Un grande ricercatore in agricoltura biologica trentino, ora in pensione, ripeteva una frase scherzosa, guardando la sua equipe abituata a battere incessantemente le campagne: “L’agricoltura di precisione in realtà siamo noi”.