In questi giorni si sta discutendo della nuova PAC, le misure di politica agricola dell’Unione Europea che vengono decise ogni tot anni tipo piano quadriennale, e noi non siamo così certi che si vada nella direzione giusta, almeno nella prospettiva del clima.
Direte voi “non eravamo su Dissapore?”, ma il futuro del pianeta si decide a tavola, lo sapete. O meglio, nei campi e nelle officine dove si produce quello che ci arriva a tavola. Riscaldamento climatico e filiera agroalimentare sono talmente connessi che anche solo elencare i punti d’intersezione – dal metano che emettono le mucche alla deforestazione dell’Amazzonia per fare spazio ai campi di soia – prenderebbe ben più di un articolo. Il destino del cibo è di salvare il mondo, nientedimeno, barcamenandosi tra due obiettivi in apparenza contrastanti: porre un freno al global warming, e nutrire 10 miliardi di persone (di come si potrebbe fare, degli alimenti del futuro parla Agnese Codignola in un bel libro che si chiama appunto Il destino del cibo). Insomma, come dice Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Ma non è solo diventando vegetariani uno alla volta che lo faremo: la questione è anche, e soprattutto, politica. Come sempre.
Dunque torniamo alla PAC: le nuove regole varranno dal 2023 al 2027 ma la fase di transizione inizia subito, l’anno prossimo. Un testo è stato approvato dopo più di 2000 emendamenti ma la complessa procedura non è conclusa, ora c’è la fase di discussione a tre Consiglio-Commissione-Parlamento. Sono 58 miliardi di euro, più di un terzo del bilancio UE (lo avreste detto che siamo una supernazione agricola?), soldi che in maggior parte vanno a sostenere milioni di aziende agricole europee. Tra le altre cose, si prevede una maggior attenzione per i produttori piccoli e per chi mette in atto pratiche che rispettano il clima e l’ambiente.
Con le PAC nell’acqua (scusate)
Ma secondo gli ambientalisti questo non è abbastanza. Anzi, è decisamente ridicolo e controproducente. Greta Thunberg: “La nuova Pac alimenta la distruzione ecologica. Undici mesi dopo che il Parlamento europeo ha dichiarato l’emergenza climatica, lo stesso organismo ha votato il proseguimento di un politica agricola che, riassumendo, finanzia la rovina ecologica con circa 400 miliardi di euro”. Fridays For Future ha perciò lanciato l’hashtag #WithdrawThisCAP. E Stefano Ciafani, presidente di Legambiente: “Ci aspettavamo una Pac ambiziosa che puntasse alla riduzione delle emissioni e degli impatti, intraprendendo un cambiamento radicale del sistema agricolo e alimentare. Chiediamo che vengano incorporate nella PAC e nella sua attuazione italiana, in maniera vincolante le strategie dell’Unione europea Farm to fork e Biodiversità che prevedono entro il 2030 una riduzione del 50% dell’uso dei fitofarmaci e del 20% dei fertilizzanti, oltre ad un taglio del 50% dei consumi di antibiotici per gli allevamenti, il 40% di superfici agricole italiane convertite a biologico e la trasformazione del 10% delle superfici agricole in aree ad alta biodiversità ed habitat naturali”.
Il problema quindi sarebbe che la PAC non si pone nella scia del Green Deal, il documento approvato a dicembre ’19 per far fronte alla catastrofe climatica. Secondo un altro punto di vista, sviscerato in un bell’articolo su Nature, il difetto invece starebbe nel manico, cioè proprio nel Green Deal, insufficiente e ipocrita, nonché dannoso a livello globale. E paradossalmente la risposta della PAC dovrebbe essere quella non di far produrre meno, ma di aumentare la produzione agricola europea. Com’è possibile dire una mostruosità simile? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.
L’outsourcing del danno
Viviamo nell’epoca della delocalizzazione, si sa: frontiere aperte per le imprese (ma non per gli esseri umani, vedi alla voce migranti) significa possibilità di andare a produrre – o comprare, che è lo stesso – in posti dove costa molto meno. E questo in un mondo interconnesso e rimpicciolito, per carità, può essere anche positivo: perché ci dobbiamo dannare l’anima per far crescere quattro pomodorini pallidi nella tundra, quando al sole della Sicilia si fanno raccolti tutto l’anno? Fosse così semplice e senza conseguenze, ma facciamo finta.
Il punto è che ci sono situazioni in cui la delocalizzazione, o meglio l’esternalizzazione dei costi, è più subdola, più indiretta, ma non meno malefica.
Noi parliamo di riscaldamento globale come di una minaccia incombente, ma futura; invece ci sono posti dove questo futuro è già realtà: città costiere semisommerse e quasi inabitabili, ghiacciai sciolti per sempre. Per una serie di circostanze, noi del primo mondo – emisfero nord, zona temperata – siamo quelli che emettono più gas serra, e quelli che ne vedono meno le conseguenze. A noi i benefici, agli altri – quelli dei tropici, o dei poli – il danno. È quello che si definisce colonialismo climatico. E il Green Deal europeo potrebbe rientrare in questo atteggiamento.
Il documento dell’UE si pone l’ambizioso obiettivo della “neutralità climatica” entro il 2050; la Cina punta alle emissioni zero entro il 2060, per capirci. Ridurre le emissioni di gas serra, migliorare le foreste e le aree coltivate, il trasporto ecologico, le energie rinnovabili.
Ursula von der Leyen: “Dimostreremo al resto del mondo come essere sostenibili e competitivi”. Badabum. Ma al di là dei paroloni, questo significa semplicemente spostare i problemi: l’Europa è la zona geografica del mondo che dipende più dalle importazioni di cibo, dopo la Cina. Rallentare, mettere un freno alle coltivazioni e agli allevamenti intensivi qui significa, a parità di consumi, aumentare le importazioni, e cioè la produzione altrove. Non sarebbe un problema, se tutto il mondo seguisse le stesse regole: ma non è così, e l’UE non può e non vuole (un po’ e un po’) imporre le sue restrizioni altrove. Tutti i trattati commerciali firmati negli ultimi tempi con nazioni o blocchi di nazioni, non fanno menzione di obblighi sulle modalità produttive.
E ognuno intende la sostenibilità in modo diverso: pesticidi, erbicidi e OGM qui vietati, in altri posti sono consentiti.
Il risultato finale è che, scrive Nature, “gli stati membri dell’UE stanno scaricando il danno ambientale su altri paesi, mentre in casa si fanno belli con le politiche ambientaliste”. Altro che dimostrare al resto del mondo come si fa. Un esempio per tutti: dal 1990 al 2014 c’è stato un incremento delle aree verdi in Europa, le foreste sono cresciute del 9% per un totale di 13 milioni di ettari. Nello stesso periodo, il resto del mondo ha perso 11 milioni di ettari di foreste, in maggior parte per fare spazio a coltivazioni di soia e altri semi da olio, allo scopo di fare fronte a una richiesta soprattutto europea: i nostri girasoli, le nostre olive danno olio di qualità elevata ma sono ruscelletti rispetto a quello che importiamo, e il 90% viene da sole 8 nazioni, Brasile in testa (se a Bolsonaro fischiano le orecchie, dovrebbero fischiare più a noi). Con una mano togliamo e con l’altra mettiamo, insomma.
Che fare? Finora si sono visti proclami e intenti, poco più. Dire a tutti di comprare da aziende e nazioni che producono secondo i nostri standard, si può fare a livello di raccomandazione. Oppure, ci sono dei protocolli privati, delle linee guida a cui le società possono aderire su base volontaria: percentuali di successo bassissime, al momento. Per dire, solo il 13% della soia importata nel 2017 proviene da aree deforestation free, e cose simili si possono dire per le ingenti quantità di carne che arrivano dal Sudamerica tutto.
Coltivare meno o coltivare meglio?
Sulle soluzioni, Nature fa un elenco abbastanza dettagliato di proposte. Tra queste, alcune sono generali e di buon senso: innanzitutto, bisognerebbe cominciare a valutare l’impronta ecologica europea a livello globale, cioè smetterla con quella mentalità miope che ha portato a inventare scappatoie come il mercato delle quote di emissioni. L’accordo di Parigi considera solo le emissioni prodotte all’interno di una nazione, non quelle contenute nei beni consumati in quella nazione ma prodotte altrove. Ogni cittadino UE “importa” una tonnellata di CO2 all’anno in beni che entrano in Europa.
Poi ci sono le idee che riguardano più da vicino la tavola. Abbassare i consumi, è una: incoraggiare gli europei a mangiare meno carne e latticini, perché finché si consuma la stessa quantità di cibi, da qualche parte bisognerà pur produrli. Strada necessaria ma difficile, con implicazioni pratiche, politiche ed etiche (materialmente come si fa? E poi, lo Stato può farsi genitore e dire No bell’a papà questo non lo mangiare che fa male?). Una buona strada potrebbe essere quella includere il danno ambientale all’interno del food cost, rovesciando il paradigma che finora ha visto il junk food prevalere dal punto di vista economico, e la verdurina bio km zero costare quanto un chilo di pollo industriale. Chi sa che con lo stimolo del portafogli non si cambino un po’ di abitudini.
E infine, eccoci qua: aumentare la produzione agricola in Europa. Come, dice, non dovevamo inquinare di meno? È proprio lì la trappola: se produciamo meno, inquiniamo meno noi, ma più qualcun altro; se produciamo di più, s’inquina meno il mondo. Perché in Europa le coltivazioni sono sottoposte a misure di controllo maggiori, e perché hanno una più alta efficienza tecnologica. Insomma la PAC dovrebbe smetterla di dare sussidi in base alle terre (sì, è quello che fa, paga per non coltivare) e iniziarli a dare per le produzioni. È una strada accidentata e piena di rischi, primo quello di tornare a foraggiare la grande industria senza scrupoli, e scatenare le ire dell’ambientalismo da giardinaggio. Si dovrebbe infine investire in ricerca, e in informazione verso l’opinione pubblica, sui più recenti passi fatti dalla genetica: parliamo della CRISPR, cosa ben diversa dagli OGM, che ha appena fatto vincere un Nobel a Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier. Senza usare geni di altre specie, si possono rendere i cibi resistenti ai parassiti e più grandi, migliorando le rese: ma i brevetti che usano questa tecnica depositati in Europa finora sono 18, rispetto ai 61 degli Stati Uniti e ai 259 della Cina.