Maestri, mentori, allievi, astri nascenti e nuove leve: nel piccolo mondo della pizza contemporanea figure simili si accendono e si spengono ad una velocità disarmante. Matricole e meteore del cornicione più o meno alveolato, ma pur sempre lievitatissimo, si passano il testimone rapidamente. Noi, dal canto nostro, vi avvertiamo: non credete ai maestri.
I migliori di loro sono pur sempre imprenditori, pronti a sbandierare verità opinabili pur di fare notizia. Secondo molti critici e professionisti, il futuro di questo ambiente non è poi tanto roseo; il picco di qualità è stato ormai raggiunto, e basta un cornicione rigonfio postato su Instagram e Facebook perché una nuova personalità venga portata alla luce.
Sempre secondo molti critici e professionisti, la prospettiva si sta appiattendo, proponendo copie su copie di pizzaioli che, pur non avendo la consapevolezza del prodotto, sfoggiano gommoni belli a vedersi, farcendoli di frasi poetiche sul senso della vita.
E tuttavia il consumatore è sempre più attento, sempre più preparato, sempre più abile nel riconoscere le stonature; prima o poi, l’effetto boom di questo prodotto inizierà a calare, e a rimanere in piedi saranno solo coloro che ne hanno davvero compreso a pieno la logica.
Il ruolo del maestro
Per il momento però, la situazione ha dell’incredibile.
Ogni giorno, in ogni fiera, in ogni occasione, qualche celebrità del mondo pizza rilascia un’intervista nella quale millanta procedimenti assurdi, capogiri del lievito madre, cotture astronomiche in forni nucleari e ingredienti colti nelle prime notti di luna del mese sacro.
Ora, non me ne vogliano le crescenti folle di fan inferociti, ma la colpa di un simile degenero è da attribuirsi per lo più ai fantomatici “maestri”. Non fraintendetemi, tutti noi (professionisti, amatori, appassionati e anche consumatori) dobbiamo tantissimo alla vecchia e nuova guardia, a coloro che hanno dato il via alla concezione moderna di pizza (di qualsiasi pizza) rendendola leggera, digeribile, ricca, traslandone il ruolo da cibo povero (anche di attenzioni) a piatto degno di stare sul piedistallo.
Ogni giorno, in ogni fiera, in ogni occasione, qualche maestro si inventa un procedimento assurdo e complicato ai limiti del verosimile, decantandolo come unico metodo per raggiungere un determinato risultato.
Gente che ha fondato scuole frequentate da migliaia di aspiranti pizzaioli, e che vanta “lievitazioni” di 5 giorni, impasti all’80% lievito madre e 20% “starter di birra” (giusto per inventare un nuovo nome, che fa figo), cantieri da 100 differenti impasti, tutti esenti da grassi a parte l’olio.
Che è un po’ come dire “senza farina a parte la farina”.
Gente che ha creato un nuovo formato di pizza famosa al nord, e che scrive libri e gira video promuovendo impasti con autolisi, lievito madre, biga, gelatinizzazione degli amidi, grano spezzato e farina integrale, tutto insieme per un unico prodotto.
E dopo i capogiri, gli strafalcioni: gente che ha esportato un nuovo concetto di pizza tascabile in tutto il mondo e che ancora è convinta che la farina, cadendo nella ciotola, “catturi l’aria” ossigenandosi e rendendo l’impasto più leggero, o gente che ha cambiato il volto della teglia romana moderna ma che ancora oggi usa lo zucchero nell’impasto per nutrire i lieviti.
E noi sappiamo che non è così, vero?
Il ruolo dell’allievo
Però oh, sono maestri, mostri sacri della pizza romana e napoletana, e i maestri non si contraddicono mai.
No, ho detto di no, non ci provare!
Non si pongono domande tecniche e scientifiche sui metodi applicati dai maestri, non ci si chiede se ciò che affermino abbia senso o pure meno!
Dicono che la farina cattura l’aria mentre cade?
E allora la farina catturerà l’aria mentre cade!
Dicono che il lievito se ne infischia degli zuccheri semplici prodotti dalla saccarificazione di maltosio e saccarosio contenuti nella farina, e ha quindi bisogno dell’aggiunta di zucchero di canna grezzo per nutrirsi?
E allora metteremo zucchero di canna grezzo nell’impasto!
Dicono che 10 g di olio sul chilo di farina cambi completamente il risultato finale?
E allora metteremo l’olio nell’impasto!
Quindi giù con la sfilza di copie, giù con allievi e amatori che tentano di replicare i metodi divulgati dai maestri senza nemmeno comprenderne il senso.
C’è un nuovo guru in Campania che fa mirabolanti pizze napoletane ad alta idratazione, studiando il panetto perfetto e cuocendo a temperatura più bassa per asciugare perfettamente il prodotto e renderlo digeribile?
E allora via con la gara delle idratazioni, degli impasti lavati che si attaccano alle mani, delle foto su facebook di cassetti colmi di panetti uniti dei quali non si riconosce più nemmeno la linea di giuntura.
Però cuociamo comunque a 500 °C, la foto viene meglio.
Il ruolo del cliente
In mezzo a questo marasma di informazioni complesse e contraddittorie, al tripudio di verità assolute vendute da chiunque, a rimetterci è di fatto il consumatore.
Dove sta il vero, e dove il falso?
A chi devo credere? Come posso informarmi, se ognuno racconta una cosa diversa?
Come posso rendermi consapevole, se quei maestri, quella vecchia guardia che ancora oggi spicca sopra agli altri, in realtà decanta concetti superati e privi di fondamento scientifico?
La risposta potrebbe essere più semplice di quanto sembri.
Abituatevi sempre a chiedere e chiedervi il “perché” di un metodo, di una tecnica, di un procedimento; la scienza è l’unico vero maestro, l’unica a potervi dare una risposta oggettiva.
Abituatevi a confrontare le pizze provate su un unico parametro di misura, la margherita.
Davvero quel mischione di autolisi, lievito madre, biga, poolish e gelatinizzazione vi sta regalando un’esperienza mai provata? Lo sforzo dà veramente un valore aggiunto al risultato?
E soprattutto, lasciate sempre l’ultima fetta a raffreddare qualche minuto; se si trasforma in gomma costringendovi a masticare per tempo immemore, qualcosa non va.
Lasciate perdere classifiche, premi, riconoscimenti, vocazioni e brevetti sulle spugne gourmet: quando andate a mangiare una pizza, conta solo il vostro morso.