Per stilare questa lista di piatti tipici romani ci siamo armati di fonti accreditate, a rischio di ricevere messaggi minatori in redazione: la cucina di Roma è una cosa seria, sì, e proprio per questo non dovete stizzirvi se non troverete in elenco cacio e pepe e amatriciana (quella, poi!), né tanti altri sempreverdi della trattoria popolare sotto il Colosseo.
Per redigerla ci siamo affidati alle parole di Ada Boni, gastronoma italiana e profonda conoscitrice della tradizione culinaria capitolina, che, per la cronaca, nel 1929 scriveva:
Nella cucina romana si preferiscono le cose semplici e genuine: tutto quello che rappresenta la complicazione della cucina internazionale viene inesorabilmente bandito. Il romano ha una cordiale antipatia per le vivande troppo elaborate e, severo conservatore, non accoglie che con diffidenza ciò che si distacca dai suoi cibi consueti. […] Il romano dell’antico stampo è un buontempone, e in materia gastronomica, è un buongustaio: vuole, alla sua mensa, mangiare bene e bere meglio, godendosi, con gioconda filosofia, la vita.
Questa la prefazione de “La Cucina Romana” della Boni, splendida raccolta di ricette tradizionali della capitale. Se è vero che la cucina romana è sottovalutata, qui vogliamo ribadire e dimostrare quanto piatti saporiti e senza troppe pretese possano arricchire lo spirito (e la pancia) di chi li mangia. Quale migliore maestra dunque per descrivere i piatti tipici romani?
Supplì
Pronto, chi parla? Diffidate dalle imitazioni: la vera supplì (sì, è femmina come le arancine) è, o almeno dovrebbe essere, al telefono. Queste deliziose palline di riso impanate e fritte nella loro ricetta originale sono talmente ripiene di provatura (formaggio filante simile alla mozzarella) che, una volta aperte, formeranno un lungo filo: come quello del telefono, per chi se lo ricorda naturalmente.
La tradizione inoltre vuole che il cuore di formaggio venga accompagnato da ingredienti molto saporiti come funghi e rigaglie di pollo. Oggi a Roma le supplì si possono trovare in una miriade di versioni, dalla più classica al sugo di carne alle più fantasiose in veste “gourmet”. Qualche tempo fa avevamo fatto una classifica in proposito: se avete altri suggerimenti fatecelo sapere, quando si tratta di supplì siamo sempre in linea!
Carciofi alla giudìa
Non vogliamo fare discriminazioni nei confronti degli altri carciofi, per dire, quelli alla romana tagliati a spicchi e saltati in padella con olio aglio e mentuccia sono da paura, tuttavia i carciofi alla giudìa sono talmente interessanti che vale la pena soffermarsi sull’argomento. Piatto tipico della tradizione giudaico-romanesca, questa frittura di carciofi sembra semplice ma non lo è: ci sono infatti svariate accortezze da tenere a mente se volete prepararli da voi.
Innanzitutto occorre procurarsi i carciofi giusti, vale a dire i cimaroli o mammole che sono grandi, tondi e senza spine. Sempre Ada ci dice che vanno tagliati in modo speciale e che il tegame per friggere deve essere di terraglia, un tipo di ceramica che impedisce al carciofo di annerirsi. Infine il segreto per una croccantezza perfetta: la spruzzata finale di acqua fredda sui carciofi a fine cottura, quando sono ancora immersi in olio bollente. Per altri trucchi del mestiere vi invitiamo a consultare il nostro vademecum.
Filetti di baccalà
Altro protagonista della tradizione ebraica, il baccalà fritto in pastella è un’istituzione romana dello street food. Considerato un ingrediente della cucina povera, anticamente veniva incorporato nei “pezzetti” che, racconta Ada, erano e sono tutt’ora, benché molto detronizzati, una specialità delle friggitorie romane. Si tratta di una frittura con la pastella composta per lo più di piccoli pezzi di broccoli, cavolfiori, patate, zucca gialla, striscette di baccalà, ecc., che in altri tempi si vendevano a cinque per un soldo. Una specialità della cosiddetta “Roma sparita” per cui si faceva la fila e che spesso veniva consumata in compagnia di un bel bianco dei Castelli. Le mode vanno e vengono ma una cosa è certa, il fritto con le bollicine è la morte sua!
Pandorato
Merita una menzione speciale il pandorato, snack d’altri tempi fatto con pane raffermo inzuppato in latte e uova e poi fritto. Se non altro è un’ottima scusa per citare le parole del grandissimo Aldo Fabrizi, il quale, dopo aver decantato magistralmente la preparazione del pandorato in versi, finiva così: “Certo chi soffre de colesterina/ e nun se vò aggravà, rinunci puro/ e vadi a letto co la minestrina”.
Farricello
Ai tempi della Roma di 2000 anni fa, il farro era uno dei cereali più usati per la preparazione di pani, zuppe e polente. Sarà per questo che le radici del farricello scavano molto in profondità nella cultura gastronomica locale: si tratta di una minestra di farro spezzato con le cotenne, oppure rivisitata in chiave moderna con guanciale e pomodoro.
Un classico della cucina romana, oggi praticamente introvabile nella sua versione originale. Il primo che la avvista sui menu della capitale ci fa un fischio, per favore?
Minestra broccoli e arzilla
L’unico piatto di questa lista che curiosamente non compare nel manuale della nostra Ada ma che ci sembrava doveroso includere, se non altro per fare felici gli “ortodossi” della cucina tipica romana . Piatto marcatamente “di magro”, questa pasta brodosa ha come protagonista indiscusso l’ortaggio dall’impareggiabile bellezza psichedelica, il broccolo romanesco.
Gli fa compagnia l’arzilla, nome caratteristico della razza chiodata di cui si utilizzano le ali, ovvero le pinne laterali. Con queste si prepara la base per il brodo che verrà incorporato alle cime di broccolo cotte in aglio, olio, peperoncino, filetti di acciuga e concentrato di pomodoro. Alla fine si aggiunge la pasta e che altro vi possiamo dire: buttatevi a pesce in questo capolavoro di semplicità culinaria.
Gnocchi alla romana
Ci vuole una precisazione: questo primo non ha niente a che fare con le palline di patate e farina del nostro immaginario gastronomico abituale. L’anima degli gnocchi alla romana è infatti il semolino cotto nel latte, impastato con le uova e infine gratinato con abbondante burro e Parmigiano.
Si ottengono così dei piccoli dischetti ricoperti dalla proverbiale crosticina, così sottile e croccante che pare di sentire il rumore che fa sotto i denti. La nostra Ada ci racconta che gli gnocchi, spesso preparati in occasione di eventi speciali, erano diventati sinonimo di festa, tanto che spesso un invito a pranzo […] viene accompagnato dalla promettente frase ‘Se famo un bel piatto de gnocchi!’
Pagliata coi rigatoni
Di piatti di pasta sinonimo di romanità ce n’è di tutti i tipi. Da parte nostra ci siamo ampiamente occupati di cacio e pepe, suggerendovi dove mangiarla a Roma, abbiamo affrontato spinose diatribe riguardanti la carbonara, e cercato di mettere tutti d’accordo sull’amatriciana. Poi, se vogliamo parlare di tipicità, cominciamo a camminare sulle uova, visto che le origini vere dei piatti appena citati sono tutte da dimostrare, tra prestiti lessicali, commistioni di ingredienti e conflitti di interesse – anzi, quella arrabbiata in questo discorso dovrebbe essere proprio la pasta, l’unica romana de Roma che troppo spesso viene snobbata in favore delle sorelle assai più sostanziose.
Oggi quindi andiamo sul sicuro, con il benestare della nostra Ada e possibilmente del nostro cardiologo. Si parla di rigatoni con la pajata che ne “La Cucina Romana” vengono presentati al contrario, cioè con l’intestino tenue di vitello da latte come protagonista. Un piatto che più romano non si può, dalla consistenza cremosa data dal chimo che in questo caso non viene eliminato ma mescolato al sugo di pomodoro per legare la pasta. Un piatto “zozzo” che sembrava fosse destinato a scomparire ma che per fortuna è tornato sulle nostre tavole: ragione in più per non farvelo scappare!
Quinto quarto
Non si può parlare di cucina romana senza citare l’ingrediente base per innumerevoli piatti: il quinto quarto, ovvero il simbolo dell’ingegno e della creatività derivato dalla scarsità di risorse, rielaborato con orgoglio nelle osterie contemporanee e nelle bistromie di tutta Italia. Elemento fondamentale della cucina povera di una volta, il quinto quarto era quel che rimaneva della bestia da macello dopo che quelli che se lo potevano permettere si erano presi gli altri quattro (due anteriori, due posteriori) ben più pregiati.
Si parla dunque di trippa, cuore, rognoni, fegato, milza, cervello, insomma tutte quelle interiora commestibili della mucca o pecora a cui è toccata la malasorte di essere stata fatta a pezzi.
Da questo assortimento sono nate ricette estremamente gustose e popolari che non possiamo esimerci dal citare in questo compendio di piatti tipici romani: coratella (ci suggeriscono che i carciofi sono l’accompagnamento più azzeccato), animelle, fegatelli, zampetti di vitello con le fave, trippa alla romana e quel classico intramontabile che è la coda alla vaccinara. Ada ci dice che veniva preparata specialmente nel Rione Regola in cui vivevano prevalentemente vaccinari e conciapelli, e riporta questo stornello: “Le Regolante/ Sò ttutte magna code e ssò ccarine/ Sò ttutte magna code e ssò ggalante”.
Abbacchio a scottadito
Aprile, capretto gentile: così si dice a Roma, dove l’agnello da latte è considerato una vera e propria leccornia. Giusto in tempo per il pranzo di Pasqua dunque, l’abbacchio a scottadito allieta le tavole festose dei romani da parecchio tempo. Le costolette di agnello sono cotte sulla brace e, come suggerisce il nome, si mangiano rigorosamente con le dita!
Saltimbocca
Lo ammette anche Ada: “Non potremmo davvero giurare che codesti ‘saltimbocca’ siano una pietanza della antica cucina romana. È piuttosto una di quelle ricette d’importazione, le quali hanno preso, dopo parecchi anni, la cittadinanza romana”. I saltimbocca, pare, sono di origine bresciana ma noi li citiamo lo stesso visto che si sono acclimatati così bene a Roma. Queste fettine di vitello cucinate con burro e vino bianco hanno una bellissima spilla di prosciutto crudo e salvia, coppia inossidabile tenuta insieme dall’immancabile stuzzicadenti. Tra un salto e l’altro attenti a non pungicarvi!
Fagioli con le cotiche
Facciamo finta di niente e, nonostante non sia proprio leggerissimo, consideriamo questo piatto un contorno alla stregua di broccoli e cicorie ripassate. I fagioli con le cotiche anzi, i facioli co’e cotiche, sono amatissimi a Roma: di norma vengono usati fagioli bianchi secchi e cotenne di prosciutto. Il tutto si fa rinvenire in acqua bollente, soffritto in olio, aglio e prezzemolo e completato con salsa di pomodoro. Un piatto de core (e de panza!).
Insalata di puntarelle
Questi deliziosi germogli di cicoria vengono mangiati crudi in insalata e conditi con olio, aglio e filetti di acciughe. Se consumate come madre natura le ha fatte, con le dovute accortezze, le puntarelle sono ricchissime di micronutrienti (fosforo, calcio, vitamina A) e hanno proprietà diuretiche e digestive. Insomma, se mangiare le verdure fa bene, a Roma fa ancora più bene.
Pomodori col riso
Il pranzo estivo perfetto, ancor di più se siete in trasferta al parco o in spiaggia (ci dicono che funzionano particolarmente bene a Ostia Lido, fate voi). I pomodori col riso sono il piatto unico di una volta, l’antenato delle insalatone di riso che ci vengono propinate oggi – quelle che, con tutte le schifezze che ci mettono dentro, farebbero sicuramente inorridire la nostra Ada. Lei, che la sapeva lunga e fondamentalmente aveva già capito che less is more, ci riporta una ricetta dei pomodori ripieni che più semplice non si può: i nostri pomodori devono essere belli grossi, scavati, riempiti con riso, olio e le erbette che preferite e infine ripassati in forno. Ottimi sia caldi sia freddi, garantiamo che saranno un successone al vostro prossimo picnic.
Maritozzo
Dulcis in fundo; usiamola questa espressione latina ogni tanto, a maggior ragione se ci serve per descrivere la colazione romana più amata in assoluto. Il maritozzo con la panna alla mattina è un momento più sacro della messa: questo panino dolce di pasta lievitata nasce come dolce quaresimale e all’inizio non prevedeva affatto la farcia cremosa, piuttosto l’impasto era comunemente arricchito da pinoli, uvetta e arancio candito. Oggi i romani hanno sacrificato la frutta secca per la panna fresca ma a noi va benissimo così, mentre mordiamo gioiosi il nostro maritozzo gigante ripieno – e se ci sporchiamo, ci piace di più, tiè.