Quando si parla di regioni italiane e piatti tipici si rischia sempre di fare un torto a qualcuno. Anzi, leviamo il “si rischia” e ammettiamolo: la scelta, per ragioni editoriali e logistiche, è arbitraria e molto ardua, e decidere cosa includere e cosa no è prima un dilemma interiore e poi una guerra molto pubblica. Lo abbiamo già visto con la Calabria, stavolta tocca a un’altra bellissima regione della nostra penisola: l’Abruzzo.
Ci proviamo di nuovo, consapevoli che, per ogni prodotto e ricetta che sceglieremo di trattare, ce ne saranno altri cento di cui magari non parleremo qui, ma che vi invitiamo a scoprire con i vostri occhi (e palati) direttamente in loco. Oggi, signori, si parla di Abruzzo: quattro province, una costa adriatica, tre massicci appenninici, tre Parchi nazionali e svariate aree protette naturali. Una Regione montuosa e boschiva con un ricchissimo patrimonio vegetale e faunistico, bella, selvaggia e tuttavia molto ospitale.
Ed è proprio grazie all’ospitalità “virtuale” del Gruppo agricolo affiliato alla pagina Facebook L’abruzzese fuori sede che abbiamo stilato (o almeno, ci abbiamo provato) una lista il più esaustiva possibile dei piatti tipici abruzzesi. Eccone 25 per viaggiare attraverso la cucina dell’Abruzzo “forte e gentile”.
Ventricina
Iniziamo subito con un derby: la ventricina è un insaccato crudo di suino comune ad Abruzzo e Molise. Il nome è chiaramente un richiamo al ventre del maiale che viene utilizzato come involucro dell’impasto: sta di fatto che in Abruzzo la natura di questo impasto ha sostanzialmente due versioni differenti. A Vasto la ventricina ha una stagionatura di almeno 90 giorni, è di colore rosso brillante per via della polvere di peperone dolce e la percentuale di tagli magri (80%) è nettamente superiore alla quantità di grasso (20%) costituito da pancetta e grasso di prosciutto.
A Teramo la situazione è invertita, con preponderante presenza di grasso (60-70%), una stagionatura molto più breve e l’aggiunta di buccia d’arancia, aglio, rosmarino e pasta di peperoni. Così la ventricina vastese si mangia “a tocchi” mentre quella teramana si spalma – e c’è chi la definisce “la nutella salata abruzzese”. Un ottimo aperitivo rustico da gustare con un bel calice di Cerasuolo d’Abruzzo, il rosato da uve Montepulciano.
Pizz’onde
La pizza fritta non è una specialità soltanto napoletana. Le pizz’onde o pizzonte sono un tipico street food abruzzese il cui significato letterale è proprio quello di “pizza unta”. L’impasto canonico di farina, acqua, lievito e sale viene diviso in tanti piccoli dischetti e tuffato nell’olio bollente; a volte viene aggiunto del latte, per rendere queste stuzzicanti frittelle ancora più morbide e fragranti. Al resto poi ci pensano i condimenti che, proprio come la pizza di ordinanza, spaziano dalle verdure, ai formaggi, alla carne, al cioccolato. Prima però vi consigliamo di provarle al naturale: vi accorgerete che sono buonissime anche da sole, dorate, croccanti e soprattutto belle unte.
Pipindune e ove
A chi non piace un po’ di colore nel piatto? Dalla provincia di Pescara, precisamente da Collecorvino dove ogni anno si tiene una sagra dedicata, arrivano i pipindune e ove. Piatto unico estivo, si tratta di peperoni fritti e uova sbattute, un trionfo di rosso, verde e giallo. Non propriamente leggero ma delizioso, questo piatto era la tipica colazione contadina, quella fatta a metà mattinata per prendersi una pausa dal lavoro nei campi: oggi è il protagonista dei pic-nic e delle gite fuori porta, soprattutto se utilizzato come ripieno per i panini.
Virtù teramane
Non chiamatelo minestrone. Le virtù sono un piatto antichissimo della provincia di Teramo oggi consumato in occasione della festa del 1 maggio. Il nome ha origini incerte ma pare sia legato al concetto appunto del fare di necessità virtù, ovvero l’arte di rielaborare gli avanzi e di arrangiarsi con ciò che è disponibile in cucina in un certo momento dell’anno – senza accessibilità a supermercati e frigoriferi s’intende.
La preparazione di questo primo piatto, che si presenta come una pasta brodosa, è molto lunga e complessa: ogni ingrediente viene cotto a parte e poi incorporato nella callara, il caratteristico paiolo abruzzese di rame o alluminio che viene appeso alla catena del camino e cuoce sul fuoco vivo. Vi si uniscono legumi secchi (ceci, fagioli, lenticchie), freschi (piselli, fave), verdure di stagione, carne (soprattutto il maiale), pasta di vari formati ed erbe aromatiche. La ricetta naturalmente varia da famiglia a famiglia, ognuna con i propri trucchetti per rendere speciale la sua virtù: noi sospettiamo fortemente che in fondo l’ingrediente segreto sia la voglia di mangiar bene insieme un piatto che parla di comunità e tradizione.
Pizz e fuje
Hai voglia a trovare un piatto vegano (oddio, che parola blasfema) in Abruzzo. Forse, ma proprio forse, la pizz e fuje (o foje a seconda della cadenza) ci si avvicina – e poniamo l’accento sul “ci si avvicina”. Il nome “pizza” in questo caso è leggermente fuorviante: si tratta infatti di una specie di polenta di farina di mais cotta in forno o in padella che costituisce la base del piatto. Sopra troviamo le “fuje”, ovvero le foglie di verdure verdi lessate come cicoria, cime di rapa, bieta, borragine. Infine, peperone secco sbriciolato (e qui può tornare utile la varietà di peperone di Altino, tradizionalmente essiccato e usato come condimento) e, se gradite, alici o sardine salate a piacere. Il piatto è tipicamente preparato in inverno ma, vista la leggerezza, si apprezza facilmente tutto l’anno. Che siate vegani o meno – ergo, abruzzesi.
Spaghetti alla chitarra
I formati di pasta in Abruzzo sono talmente tanti che dovremmo fare una lista unicamente dedicata a loro. Diamo il via alle danze con gli spaghetti alla chitarra, pasta fresca all’uovo realizzata con l’omonimo attrezzo tradizionale abruzzese costituito da fili d’acciaio paralleli tesi su un’intelaiatura di legno. Pressando la sfoglia sulle “corde” della chitarra con il matterello si ottengono degli spaghetti a sezione quadrata con spessore e larghezza entrambi di 2-3 millimetri.
Formato particolarmente adatto ai sughi di carne, a Teramo non vi potete assolutamente perdere la chitarra con pallottine (polpette). La variante di pesce arriva da località marittime come Vasto e Ortona, che propongono la chitarra con pelosi (granchi), specialità quasi introvabile data la scarsità della materia prima. In qualsiasi tonalità vi assicuriamo che questa chitarra suona proprio bene.
Pasta alla mugnaia
Attenzione: il piatto tipico di Elice, provincia di Pescara, potrebbe trarre in inganno. Cosa c’è di tanto speciale, direte voi, in una pasta fresca al sugo? Beh, tanto per cominciare, per dirla alla abruzzese, ‘na freca di storia, di artigianato e di manualità. Già dal Medioevo infatti è attestata, lungo il corso del fiume Fino che scorre tra Pescara e Teramo, la presenza di mulini ad acqua per la macinazione del grano. Farina e acqua erano così intrinsecamente legate all’economia del territorio che il prototipo di pasta che se ne ricavava era chiamato Molinara e veniva preparato in bianco con aglio, olio e peperoncino. A tal proposito ricordiamo che A) la carne era un bene di lusso; B) il pomodoro in Europa non era nemmeno arrivato (e ci volle parecchio tempo ancora prima che noi italiani ci fidassimo a usarlo in cucina).
Ed ecco l’inganno del nome: il mugnaio, figura chiave del processo di trasformazione della materia prima, sorprendentemente non c’entra. Mugnaia deriva piuttosto da “mungere”, e fa riferimento al gesto usato per tirare fuori dalla matassa farinosa i fili lunghi e piuttosto ciccioni di pasta, manovra tutt’altro che semplice (richiede una certa destrezza oltre che forza fisica) e che ricorda appunto la “strizzata” di mammella delle vacche da latte.
Queste le origini e l’etimologia della pasta alla mugnaia: come si è evoluta oggi? Si tratta di pasta fresca di grano tenero e uovo, di formato lungo e dallo spessore di almeno 1 centimetro. Il condimento tipico elicese è a base di carne di vitello e maiale rosolata su un trito di peperoni, cipolla e carote, a cui vengono aggiunte passata di pomodoro e melanzane a cubetti. Infine, una bella spolverata di pecorino e l’immancabile calice di Montepulciano d’Abruzzo.
Scrippelle ‘mbusse
Sono arrivate prima le crêpes o le scrippelle? L’eterno dilemma rispecchia quello dell’uovo, ingrediente fondamentale in entrambe le preparazioni. In questo caso siamo abbastanza sicuri: le crespelle di Teramo derivano da quelle francesi, anche se ovviamente c’è chi sostiene il contrario. Leggenda vuole che all’inizio dell’Ottocento il cuoco Enrico Castorani stesse preparando le crêpes per le truppe francesi di stanza in Abruzzo ma al momento di servirle gli caddero nel brodo: nacquero così le scrippelle ‘mbusse, ovvero “bagnate”.
A differenza delle cugine d’oltralpe, le scrippelle sono un primo piatto strettamente salato, il cui impasto, a base di acqua, farina e uova, viene arrotolato, cosparso di pepe e pecorino (non Parmigiano, sia mai!) e appunto tuffato nel brodo, rigorosamente di gallina. Le scrippelle inoltre sostituiscono la sfoglia nel celeberrimo timballo alla teramana, piatto unico portato alla ribalta anche oltreoceano con il film del 1996 Big Night, i cui protagonisti, due fratelli emigrati negli USA dall’Abruzzo, fieramente dichiarano: “Lu timballo è nu tamburo e all’interno ci stanno tutte le cose chiù ‘bbone del mondo”. Chiariamolo subito, quel timballo ha ben poco a che vedere con quello teramano, tuttavia non facciamo fatica a credere a questa bella affermazione. Nella ricetta locale le scrippelle costituiscono gli strati, intramezzati da pallottine, sugo e formaggio – con tutte le varianti di caso, estro e disponibilità degli ingredienti. Insomma che siano sole o sovrapposte, le scrippelle spaccano di brutto.
Brodo col cardone
Non se ne sente parlare spesso, eppure le ricette con i cardi tipiche italiane sono parecchie. L’esempio di oggi si consuma nel pranzo più importante dell’anno, quello di Natale, e addirittura ne costituisce una delle portate principali. Il brodo col cardone, ben lungi dall’essere una misera minestra di verdure, è un piatto unico a base di cardi, pallottine (polpette di vitello) e stracciatella di uova, ovvero uova strapazzate con formaggio. La particolarità di questa zuppa ricca sta nella preparazione: tutti gli ingredienti, in special modo il brodo che di solito è a base di gallina, cappone o tacchino, vengono preparati con largo anticipo e ognuno per conto suo. L’assemblaggio avviene soltanto alla fine, giusto il tempo di insaporirsi ed essere prontamente raccolto dai cucchiai a dir poco frementi dei commensali.
Sagne e fasciul
La versione abruzzese della pasta e fagioli, le sagne e fasciul sono un primo piatto della cucina povera che, in mancanza dell’uovo nell’impasto e della carne nel sugo, sopperiva al fabbisogno proteico delle classi sociali meno abbienti unendo legumi e cereali. Il formato della pasta ricorda dei piccoli rombi, da cui il nome sagne a pezze, che è tipico non solo dell’Abruzzo ma anche di altre regioni dell’Italia centrale. Tuttavia vale la pena menzionare due ricette protagoniste di feste e sagre nella provincia di Chieti: le sagn’app’zzat e salsiccia vengono celebrate l’11 agosto a San Giovanni Lipioni; le sagnë a lù cuttéùr vengono condite con salsicce di carne e fegato, pancetta e polvere di peperoncino e consumate con le mani in un mega rito collettivo a Castiglione Messer Marino. Da leccarsi le dita, non c’è che dire.
Mazzarelle
Che ci crediate o no siamo ancora ai primi. Le mazzarelle sono la portata di carne che, durante il pranzo di Pasqua a Teramo, per l’occasione strizza l’occhio a paste e zuppe e si traveste da primo. Si tratta di involtini di coratella d’agnello avvolti in foglie di lattuga o indivia e legati con le budella che possono essere semplicemente soffritti oppure cotti in umido. Il preludio al trionfo di carni di pecora e agnello che seguirà a breve, sia qui, sia sulle tavole pasquali.
Rustell
Ci sono azioni che gli esseri umani compiono automaticamente, vuoi per istinto, vuoi per cultura. Addentare un arrosticino fa parte di questa categoria: prima o poi lo abbiamo fatto tutti. I rustell sono gli spiedini di carne di pecora che regolarmente compaiono sulle griglie di tutta Italia: lunghi, stretti, da distribuire simpaticamente a mazzi, sembrano un elemento “scontato” ma non lo sono affatto. Le grandi discriminanti sono la produzione (industriale vs manuale, alternando pezzi magri a pezzi grassi), la tecnica di cottura (griglia generica vs fornacella a canalina apposita) e il grado di cottura. Per non sbagliare (sempre sperando di non far indignare i nostri amici abruzzesi) seguite le nostre indicazioni.
Pecora alla callara/cottora
La variante linguistica di questa preparazione è legata alla zona di provenienza, rispettivamente Teramo o L’Aquila. Questa ricetta tipicamente montana prende il nome dal contenitore in cui viene cotta (ne abbiamo parlato prima a proposito delle virtù) e sarebbe legata alla transumanza dei pastori che scendevano con le greggi dalle montagne abruzzesi per dirigersi verso le pianure pugliesi. La pecora stufata nel paiolo viene cotta per almeno quattro ore di modo che la carne si sfaldi fino quasi a sciogliersi, irrorata di vino, odori e spezie e tradizionalmente condivisa con tutta la comunità intorno alla callara stessa. Oggi questa occasione di consumo collettivo si limita a essere brevemente rievocata durante le numerose sagre in giro per l’Abruzzo: come sempre la magia scompare ma almeno il gusto rimane.
Capretto alla neretese
L’amore degli abruzzesi per le carni ovine non si ferma certo alla pecora. Anche la capra è un secondo molto gettonato, in particolare a Nereto, piccolo comune nel cuore della Val Vibrata in provincia di Teramo. La ricetta tipica è, ça va sans dire, il capretto alla neretese cotto in umido con peperoni rossi, cipolle, pomodori e chiodi di garofano. Gustatelo al meglio seguendo la stagionalità del peperone che guarda caso, da Pasqua fino a settembre, corrisponde al periodo ideale per i pranzi all’aperto. Rustici e conviviali, non c’è occasione migliore per approfittare dell’ospitalità caratteristica abruzzese.
Cace e ove
Pecorino e uova sono due costanti della cucina abruzzese. In questa sezione vogliamo includere due preparazioni che li vedono protagonisti. Dalla parte vegetariana abbiamo le pallotte cacio e uova, gustose polpette di pane, uova e pecorino (non necessariamente) fritte e saltate in un sugo di pomodoro e basilico. A seconda della dimensione possono essere un appetitoso piatto unico oppure un finger food da aperitivo.
Dalla parte carnivora abbiamo l’agnello cace e ove, secondo tipico della tradizione pasquale. Questo spezzatino di agnello al vino bianco e rosmarino viene arricchito da uova sbattute e pecorino subito prima di essere servito: risulterà così intinto in una salsa cremosa da gustare ben calda. A livello di gusto i miracoli sono assicurati, con la benedizione dei simboli pasquali che affollano questo piatto.
Cif e ciaf
A forza di descrivere piatti tipici in giro per l’Italia lo abbiamo detto e ridetto fino allo sfinimento: del maiale non si butta via niente. E questo è vero anche in Abruzzo dove ciò che resta del povero suino, una volta macellato, frollato, insaccato, affumicato e chi più ne ha più ne metta, viene rosolato in padella con olio, aglio e qualche odore. E indovinate un po’ che rumore fa? Esatto, cif e ciaf, la sfrigolante onomatopeica che dà il nome a questo piatto. Che, come spesso accade nella tradizione contadina, è insieme povero e ricco: povero per la qualità più bassa degli ingredienti, fondamentalmente gli scarti dell’animale; ricco perché simbolo di convivialità e perché, diciamocelo, quale piatto a base di maiale non è incredibilmente gustoso? Questo poi fa venire l’acquolina in bocca ancora prima di assaggiarlo: basta tendere l’orecchio e farsi invogliare dal suono inconfondibile.
Ciammariche al sugo
Le lumache in Abruzzo sono una leccornia, dall’entroterra alla costa. In dialetto si chiamano ciammariche e sono particolarmente gustose cotte in umido con olio, aglio, peperoncino e sugo di pomodoro. Buonissime da sole come antipasto o secondo, si possono accostare anche a primi come gnocchi e tagliatelle. Una versione per così dire “costiera” del piatto si può realizzare con li bummalitt, le lumachine di mare che per aspetto, assonanza e modalità di consumo ci ricordano i babbaluci siciliani, must dello street food palermitano. La pesca tradizionale avveniva con degli attrezzi specifici chiamati “cerchietti”, sui quali le lumachine potevano depositare le uova fecondate. Oggi il processo di raccolta è industrializzato, ma per fortuna la ricetta è rimasta invariata: saltate in padella con aglio, olio, rosmarino e vino bianco, si gustano come snack sul pane tostato o semplicemente infilzate una a una con lo stuzzicadenti.
Brodetto di pesce
Apriamo un’altra grande diatriba, stavolta sul versante marino. Il brodetto di pesce è un tipo di preparazione comune a tutta la costa Adriatica: in Abruzzo le versioni più conosciute sono quella alla pescarese e quella alla vastese. Solo un’ora di macchina separa le due località, eppure la stessa preparazione non potrebbe avere due declinazioni più diverse. A Pescara lu brudett si fa con il pescato di zona ma senza usare il pesce azzurro, non c’è aggiunta di pomodoro, è previsto il soffritto di peperoni secchi in olio e durante la cottura il tegame rimane aperto. A Vasto per lu vrudàtte il pesce viene cucinato intero (almeno sei varietà pescate tra Ortona e Vasto) e si fa largo uso di ortaggi, quali pomodoro, peperone, aglio e peperoncino. Inoltre non viene utilizzato il soffritto, né vengono aggiunti acqua, brodo o aceto, e il tegame (coccio) non deve mai essere aperto, piuttosto scosso delicatamente per evitare che il pesce si attacchi al fondo. Viene servito con pane o con l’aggiunta di pasta. Un piatto che praticamente si è fatto da solo (ed è venuto benissimo).
Pizzelle
Ma anche neole, ferratelle, catarrette, cancellate, nivole, zimmelle, nievole, cancelle, scarzelle, coperchiole, ciarancelle… Le pizzelle sfuggono le maglie della definizione e si ribellano al sistema, tuttavia la sostanza rimane (quasi) la stessa. Queste cialde sottili di pasta da biscotto vengono cotte tra due piastre arroventate che danno loro la caratteristica forma attraversata da nervature che ricorda una cancellata. I “waffles abruzzesi” (sì, lo sappiamo che è quasi un peccato mortale definirli tali) sono il classico dolce da festa patronale e, oltre alle differenze linguistiche, presentano tutta una serie di toppings che variano a seconda dei luoghi: miele e noci, marmellata di uva, mosto cotto sono tra i più comuni. Gustatelo, se volete, mentre vi fate una bella partita a nomi-cose-città.
Bocconotti (di Montorio e Castel Frentano)
Mettiamo subito le mani avanti: per evitare diatribe circa l’origine dei bocconotti tout court, i tortini di pasta frolla ripieni che si fregiano di Prodotto Agroalimentare Tradizionale in Abruzzo, Puglia e Calabria, ci occupiamo direttamente di due provenienze specifiche. Prima però facciamo un passo indietro. Da dove arriva il termine bocconotto? Leggenda abruzzese (come già detto, le altre non le prendiamo in considerazione) ne attribuisce l’invenzione a una domestica del Settecento (spoiler: in queste storie ce n’è sempre una). Costei preparò per il suo padrone un dolcetto di pasta frolla ripieno di caffè liquido e cioccolato, al tempo ingredienti status symbol, da mangiare in un sol boccone. E dunque, bocconotto.
La leggenda proviene da Castel Frentano, provincia di Chieti, dove troviamo il bocconotto castellino. Questa versione del tortino ha forma tronco-conica ed è farcita con crema al cioccolato aromatizzata alle mandorle e cannella. A Montorio al Vomano, provincia di Teramo, il bocconotto è un dolce legato alle festività, in particolare matrimoniali e natalizie. Qui il tortino è farcito con marmellata di uva Montepulciano e viene contraddistinto dalla “lacrima”: grazie a un impasto di pasta frolla più friabile infatti, a cottura ultimata il ripieno dovrebbe fare capolino in pieno stile food porn. O almeno, quel tanto che basta a far venire una voglia spasmodica di rimpinzarsi, un boccone dopo l’altro.
Cicerchiata
Queste deliziose palline di pasta appiccicose sono il dolce carnevalesco che crea dipendenza. Simile agli struffoli napoletani ma di dimensioni più ridotte, la cicerchiata abruzzese è costituita da un impasto a base di farina, uova, olio e zucchero da cui si ricavano delle sfere di 1-2 cm di diametro che vengono tuffate nell’olio caldo e poi cosparse di miele bollente. Una volta solidificato, questo profumatissimo agglomerato di palline viene decorato da mandorle o sprinkles colorati e se ne sta lì, quatto quatto, ad aspettare che qualcuno cada nella tentazione di assaggiarne una (soltanto una!). Da quel momento in poi è troppo tardi, non ci si ferma più.
Pizza dogge
Al di là delle parlate che la definiscono dogge, doc oppure doce, quando arriva in tavola questa torta a strati multicolore mette d’accordo tutti. La pizza dolce abruzzese è tipica di Teramo e la sua sola presenza è sinonimo di festeggiamenti: nasce infatti come torta nuziale e viene preparata ancora oggi in occasione di ricorrenze importanti, in primis matrimoni ma anche compleanni e anniversari. La ricetta, come è inevitabile nelle tradizioni culinarie tramandate oralmente, cambia leggermente a seconda del nucleo familiare, ma gli elementi portanti rimangono invariati. La struttura è costituita da dischi di pan di Spagna bagnati di diversi liquori (caffè, alchermes, rum) e intervallati da strati di creme colorate: la gialla corrisponde alla pasticcera, la nera al cioccolato, la bianca alla Pasta reale di mandorle. Il tutto viene ricoperto di glassa agli albumi e decorato con confettini colorati. Insomma, una vera e propria opera d’arte che merita di essere assemblata per le occasioni più speciali.
Sise delle monache
A Guardiagrele, provincia di Chieti, c’è un dolcetto irriverente e talmente indimenticabile da essere menzionato persino nell’epico Vino al Vino di Mario Soldati. L’autore, con il suo caratteristico piglio ironico, scrive: “Le chiamano le ‘Zizze delle Monache’. Forse un tradizionale scherzo alludeva così a un mistero inviolabile. Sono bignole di pan di Spagna farcite di crema pasticcera. E la loro forma è appunto di zizze, coi capezzoli in punta, erti; e riunite, riunite non a due, come sarebbe stato normale, ma addirittura a tre”. Il mistero delle Sise rimane ancora oggi: seni ricordati in modo non troppo esplicito, oppure omaggio naturalistico ai tre massicci d’Abruzzo, ovvero Gran Sasso, Majella e Sirente-Velino?
Probabilmente non lo sapremo mai, anche perché non c’è tempo di soffermarsi sui dettagli. Questi dolcetti si trovano e per certi versi si mangiano soltanto a Guardiagrele: da una parte perché il disciplinare permette la produzione esclusivamente in loco; dall’altra, perché il bignè tre volte tettuto perde molto velocemente di consistenza se non è consumato entro la giornata. Dunque, adesso avete un validissimo motivo in più per visitare questo comune montano, e poco male se è per dare un morso ai seni di suora più dolci e morbidi che ci siano.
Caggionetti
Ma anche calgionetti, caggiunitt’, cagionetti, calcionetti. Questi ravioli fritti dall’impasto a base di farina, olio e vino bianco sono tipici dolcetti natalizi ripieni delle più svariate bontà. A Vasto ad esempio si usano ceci o castagne con mandorle, miele e cannella; a Teramo si aggiungono anche cioccolato fondente, rum e buccia d’arancia; a Ortona e Chieti non ci si risparmia con la marmellata di uva Montepulciano detta scrucchijate. Chiamateli come volete e scegliete il ripieno che vi stuzzica di più: talmente buoni che non c’è pericolo di sbagliare.
Parrozzo
L’altra faccia del Natale è a Pescara in cui è tradizione brindare con una bella fetta di parrozzo, il dolce da pasticceria di ispirazione contadina. Il parrozzo nasce nel 1920 da un’ispirazione del pasticcere Luigi D’Amico che decise di ricreare, in versione dolce e festosa, il pan rozzo contadino, una sorta di pagnotta a base di farina di mais. Impastando semolino o farina di mais con zucchero, uova, mandorle tritate e buccia di arancia creò questo dolce di forma semisferica che ricoprì di cioccolato, facendo il verso alla crosta bruciata del pane cotto a legna.
Non vi stiamo qui a decantare le qualità del parrozzo perché qualcuno (assai più bravo) lo ha già fatto per noi. Vi riportiamo quindi le sue parole: “È tante ‘bbone stu parrozze nove che pare na pazzia de San Ciattè, c’avesse messe a su gran forne tè la terre lavorata da lu bbove, la terre grasse e lustre che se coce… e che dovente a poche a poche chiù doce de qualunque cosa doce..” – Gabriele D’Annunzio.