Pasta. Spaghetti, torciglioni, farfalle, maccheroni, da condire con il classico ragù, con il pesto, fatta al forno o semplicemente con un po’ di burro e parmigiano, ma sempre e comunque pasta.
La pasta è il piatto forte di noi italiani, ciò che più rappresenta la nostra tradizione gastronomica, il piatto che decliniamo in mille preparazioni diverse, passando con indifferenza dalla calda, confortante e ricca pasta al forno dei giorni di festa alla rinfrescante, veloce e leggera insalata di pasta.
Insomma, basta che sia pasta.
Normale quindi che noi italiani siamo non solo i primi consumatori al mondo di pasta ma anche i primi produttori. Il settore pasta, infatti, rappresenta il polo più importante dell’industria alimentare italiana e vale da solo un quinto delle esportazioni, per un importo di 18,5 miliardi di euro l’anno (dati La Lettura/Corriere della Sera).
E quando parliamo di pasta, occorre specificare, la parte del leone la fa la pasta di grano duro, compatta e consistente, vera regina delle nostre tavole.
Peccato però che la produzione di grano nostrano non sia sufficiente per coprire il fabbisogno nazionale, esistendo un deficit medio annuo di circa 2 milioni di tonnellate di grano duro (media ultimi 15 anni); di qui, la necessità di ricorrere a grano di importazione, nella misura del 40% circa del totale, grano senza il quale l’Italia perderebbe il primato di leader mondiale nell’esportazione e produzione di pasta e gli italiani sarebbero costretti a tagliare i consumi dei loro amati spaghetti e affini del 30-40% circa.
Basterebbero questi semplici dati, quindi, per sfatare il mito in base al quale acquistando pasta prodotta con il 100% di grano duro nazionale si salverebbe “il granaio Italia” mentre è invece vero il contrario, e cioè che la produzione italiana viene salvata tutti i giorni dalle aziende pastaie che acquistano sì la maggior parte del grano duro necessaria in Italia, ma che utilizzano per il loro prodotto anche grano straniero.
«La pasta italiana è sempre stata fatta con grano importato da Ucraina, Stati Uniti, Venezuela —afferma Roberto La Pira, direttore del Fatto Alimentare– e l’idea che solo il “made in Italy” sia buono è un po’ da sfatare».
Le aziende infatti, ricorrono al grano straniero non solo per sopperire alla carenza di grano nazionale, ma anche per motivi qualitativi: il grano duro importato, soprattutto quello proveniente da Canada, Stati Uniti e Ucraina, presenta maggiori quantità di glutine rispetto al grano nazionale, dando luogo a un prodotto finale migliore sotto il profilo organolettico, con una pasta che trattiene maggiormente l’amido e presenta una miglior tenuta in cottura.
In altre parole, il grano importato risulta necessario non solo per un banale motivo di fabbisogno, ma anche per arricchire e migliorare la qualità del nostro.
Eppure, per quanto necessario quantitativamente che qualitativamente, il grano d’importazione è guardato con diffidenza da parecchi operatori del settore e soprattutto percepito dal consumatore finale come meno salutare del grano nostrano, tant’è che sempre più pastifici hanno dato vita a linee di prodotto “100 per cento grano italiano“, tra questi anche pastifici non esattamente artigianali come Barilla.
Per i lettori più patriottici ecco una lista di marche tre le più vendute che realizzano pasta con grano 100% italiano:
– Afeltra
– Alce nero
– ViviVerde e FiorFiore (Coop)
– Felicetti Monograno e Grano duro biologico
– Floriddia
– Gentile Pastificio Gragnano
– Ghigi
– Girolomoni
– Grano Armando
– Dedicato e Linea biologica (Granoro)
– Iris
– Liguori
– Palandri
– Jolly
– Pastificio dei Campi Gragnano
– Sgambaro
– Valle del Grano
– Verrigni
Tra i motivi di questa diffidenza ci sono il presunto minor controllo sulla filiera e la maggior percentuale di muffe presenti nel grano d’importazione.
Quest’ultimo, infatti, soprattutto se proviene da oltreoceano, resta stipato a lungo dentro le navi dove umidità, calore e carenza di adeguata areazione creerebbero un ambiente favorevole alla formazione di micotossine, sostanze chimiche tossiche che poi si ritrovano anche nel prodotto finale, per quanto all’interno dei limiti di tolleranza stabiliti dalla ferrea legge europea.
Ma muffe e micotossine dovute a trasporto e immagazzinamento non sono i soli problemi che vengono sollevati rispetto ai grani stranieri: secondo Simonetta Nanni, agronoma Slow Food, l’utilizzo intensivo degli stessi tipi di grano, rispetto alle molteplici varietà originarie del secolo scorso, oltre ad avere selezionato grani sempre più piccoli, con spighe più compatte e conseguente minore circolazione di aria, ha portato a una maggiore comparsa di muffe e funghi, la causa, a suo dire, del proliferare di parecchie malattie e intolleranze sempre più diffuse negli ultimi anni.
Problemi che, ancora secondo la Nanni, non si presenterebbero se si utilizzassero soltanto grani nazionali “veri e antichi”.
Su quest’ultimo punto sembra però non esserci unanimità di vedute, infatti non manca chi sostiene che i cosiddetti grani “antichi” tanto di moda oggi, a causa di mutazione genetiche anche naturali, abbiano ben poco a che spartire con i grani coltivati migliaia di anni fa, e che inoltre non sia affatto provato che mangiare grani “antichi” darebbe maggior beneficio alla nostra salute rispetto al consumo di grani attuali.
Una piccola diatriba, quindi, tra i sostenitori del grano nazionale tout-court e quelli che invece non disdegnano i grani d’importazione, necessari comunque se si vogliono mantenere gli attuali primati italiani di produzione e consumo.
Intanto, nell’attesa che la questione si risolva, noi, semplici ed appassionati consumatori di pasta, continueremo a gustarci i nostri fumanti piatti di spaghetti, senza pregiudizi e con molto godimento.
[Crediti | Corriere/La Lettura, Link: Dissapore, Corriere,it, Il Fatto Alimentare]