Nelle ultime settimane ci siamo permessi di sdoganare forni diversi da quello a legna (esistono, e fanno una pizza incredibile) e ridare dignità al vituperato cubetto di lievito di birra. Ora, però vogliamo superaci, affrontando il tema delle lunghe lievitazioni, della maturazione (perché, cosa cambia?) degli impasti e di tutte le baggianate che le circondano.
Siete pronti a completare il trittico d’oro?
Qual è lo slogan ripetuto e sbandierato ai quattro venti da pizzerie di dubbia fama? Dai che lo sapete.
Vedo nella vostra buca delle lettere, stracolma di volantini color giallo canarino, quattro pagine fitte di farciture assurde che non ordinerà mai nessuno. E davanti, a caratteri cubitali, appare la scritta “Pizzeria da Gianni: con forno a legna, lievito madre e lievitazione di 120 ore“.
Perdonate il cinismo, ma c’è un motivo se oggi in Italia, patria di questo piatto strabiliante, ancora si fatica a trovare una pizzeria decente nell’immensa baraonda di locali aperti per sport.
Nonostante l’aumento record di consumi nei ristoranti (85 miliardi di euro spesi), il 2018 è stato un anno a dir poco disastroso per le attività ristorative: il saldo tra società avviate e cessate è il più negativo in 10 anni, 13.629 contro 26.073.
E no, troppo comodo affermare che sia (solo) colpa della crisi, della burocrazia, della mafia o di mio cugino.
Tantissima gente, specialmente nel mondo dell’arte bianca, apre senza consapevolezza, senza metodo, senza uno straccio di competenza amministrativa e gestionale, senza avere in chiaro le logiche di processo, l’importanza dei tempi e della linea produttiva.
Tantissimi, specialmente nel mondo dell’arte bianca, aprono dopo una settimana di corso passata a stendere pizze con una ricetta predefinita, pagando migliaia di euro per un pezzo di carta che non basta minimamente a soddisfare le capacità necessarie ad avviare e mandare avanti un locale.
Quante “Pizzerie da Gianni” contate nel vostro paese?
Quanti inesperti avviano un’attività convinti che basti urlare su un volantino la presenza del forno a legna, del lievito madre e di una lievitazione di centinaia di ore a garanzia di un’ottima pizza?
Anzitutto, qua mancano le basi.
Lievitazione vs maturazione: le differenze
Nel 2019 ancora si fa una becera confusione tra “lievitazione” e “maturazione”, un concetto troppo spesso dimenticato e in realtà importantissimo per le dinamiche di riposo di un impasto.
La maturazione consiste in un insieme di processi microbiologici durante i quali gli enzimi contenuti nella massa scompongono gli zuccheri complessi in strutture più semplici, attuando di fatto una vera e propria “digestione”.
La lievitazione è solo uno di quei processi, l’unico visibile ad occhio nudo, ed è il risultato dell’azione dei lieviti che, nutrendosi degli zuccheri della farina, generano anidride carbonica che fa gonfiare l’impasto; tali zuccheri (maltosio e saccarosio) sono prodotti continuamente dalla saccarificazione (il processo che trasforma i carboidrati in zuccheri semplici) dell’amido contenuto nella farina con l’aiuto delle amilasi e dalle diastasi, enzimi già presenti nella farina stessa. E’ anche l’unica ad essere dipendente dalla temperatura, in quanto i lieviti lavorano più velocemente a temperature comprese tra i 20 e i 30 °C, mentre rallentano la loro azione fino a quasi fermarla a 4 °C, e muoiono oltre i 60 °C.
La celebre frase “mi è lievitata in pancia” è una leggenda metropolitana piuttosto ignorante, in quanto i Saccharomyces cessano di esistere in forno.
I vantaggi della maturazione (se ben condotta)
La maturazione agevola però un fenomeno ancora più importante.
Gli zuccheri semplici (e precisamente quelli denominati “riducenti”), reagendo con gli amminoacidi delle proteine in assenza di umidità e a temperature di almeno 140 °C innescano la celebre Reazione di Maillard, responsabile del colore bruno e soprattutto dell’incredibile profumo che si scatena durante la cottura dei panificati come della carne, di una torta o delle patate fritte.
Lunghe maturazioni o impasti dimenticati?
Beh, facile direte voi, a questo punto basta dimenticare un impasto in frigorifero per una settimana per guadagnare in sapore.
Peraltro, strutture più semplici saranno più facili da digerire per il nostro organismo, corretto? No, nella maniera più assoluta.
E fa davvero specie vedere realtà formative di fama internazionale come l’API (Associazione Pizzerie Italiane) pubblicare post come quello risalente a pochi giorni fa, raffigurante un impasto indiretto con 192 ore di maturazione: un espediente per per attirare orde di iscritti ai corsi, probabilmente.
Inutile dirvi che la moda delle lunghissime ore di riposo va di pari passo a quella del lievito madre.
Il pizzaiolo medio oggi acquista farine da panettone, con la forza adatta a mantenere intatta la struttura per giorni, in modo da garantire una perfetta digeribilità del prodotto finito.
O almeno è così che gli hanno insegnato.
Beh sedetevi, perchè sto per darvi una notizia sconvolgente: la digeribilità ha veramente poco a che fare con la maturazione di un lievitato.
Sosteniamo tale affermazione con fonti chiare, dimostrazioni e dati scientifici e ragionamenti logici, vi va?
Le lunghe maturazioni portano davvero ad un aumento di digeribilità?
Anzitutto un esempio caro a Giovanni Tesauro, ingegnere, nonché mio maestro in arte bianca: avete mai visto qualcuno mettere in frigorifero per 120 ore un impasto per torta?
No vero?
Ma come, è pur sempre un prodotto composto da farina eppure lo digeriamo perfettamente, che storia è mai questa?
Semplice: la cottura, nel caso di un dolce da forno, avviene in maniera impeccabile.
Avete presente il classico trucco della nonna, lo stecco utile a verificare l’assenza di umidità della mollica?
Ebbene, nient’altro è che un metodo rudimentale, ma efficace, per constatare l’effettiva gelatinizzazione degli amidi; in assenza di quest’ultima, la digestione può essere inibita e rallentata a causa di spiacevoli fermentazioni nell’intestino ad opera di zuccheri oligosaccaridi, monosaccaridi e disaccaridi che sfuggono alla digestione degli enzimi.
Il processo di idrolisi degli amidi: quanto pesa davvero?
Al contrario, il nostro organismo non ha problemi a digerire il glutine (a meno ovviamente dei casi di celiachia ed intolleranza), le proteine (qualcuno di voi ha mai lamentato difficoltà nel mandar giù una bistecca?) ma soprattutto gli amidi, per i quali esistono specifici enzimi (alfa e beta amilasi) deputati a questa funzione, l’idrolisi.
Lanciamo un po’ di dati a sostegno?
Come ci dice il biologo Gabriele Raimondi, il processo di rottura degli amidi durante la macinazione difficilmente supera il 10%, con una media che si aggira attorno al 7-8% ed è in funzione della durezza della cariosside di frumento e dalla tipologia dell’impianto.
Una simile quantità si mostra comunque sufficiente per tutto il processo di lievitazione.
Ciò ovviamente significa che il processo di idrolisi dell’amido non possa andare oltre questo 7-8% di amido danneggiato; considerando che il consumo da parte di un grammo di lievito sia 0,32 g di glucosio ogni ora, nelle 24 ore il consumo è di 7,68 grammi di glucosio.
Lunghe maturazioni o impasto scarico di zuccheri?
Non solo quindi tale quantità non giustifica l’attribuzione della digeribilità alla maturazione, ma esagerare con tale processo causa un esaurimento di tutti gli zuccheri riducenti presenti nell’impasto ad opera dell’attività metabolica dei lieviti; una pizza cotta in questo stato viene denominata in gergo “scarica”, e si presenta bassa, chiusa ma soprattutto estremamente pallida, sintomo che la reazione di Maillard non è avvenuta correttamente.
Lo sviluppo di una buona alveolatura agevola il passaggio del calore durante la cottura e la conseguente gelatinizzazione degli amidi in tempi brevi, motivo per cui portare lievitazione e/o maturazione a valori astronomici potrebbe causare un risultato opposto a quello desiderato.
Non mi stancherò mai di ripeterlo: la chiave di volta è la consapevolezza, la comprensione del processo e della sua logica.
La disinformazione in ambito gastronomico non solo è dannosa per il portafoglio, ma in troppi casi anche per la vostra salute.
Non è assolutamente necessario procurarsi farine di forza inaudita e bloccare gli impasti in cella per ottenere un buon prodotto; il metodo varia a seconda del risultato ricercato, dei propri gusti e dell’impronta che si desidera conferire al prodotto lievitato di riferimento.
La bellezza dell’arte bianca è data dalla sincerità, dal rigore e da una tremenda passione.
Panificare vuol dire innamorarsi di un esperimento, di un risultato, di un pane che cresce nel forno.
Ma vuole anche dire abbattere i luoghi comuni, le mode e i pregiudizi, tutti espedienti che rischiano di frenare la meritata crescita di questo magico mondo, ancora troppo acerbo nonostante gli anni.
[ Crediti: Giovanni Tesauro, Gabriele Raimondi, Dario Bressanini ]