Mangiare locale, il km zero, il mercato dei contadini, sostenere i piccoli produttori e l’economia di zona, scegliere i prodotti di stagione, non confezionati… Oramai sembra che non se ne parli neanche più tanto, rispetto a qualche anno fa: ma non perché la moda è passata, perché è entrata nel mainstream. Nel sentire comune. Tutti concetti che appartengono a una stessa area, quella della sostenibilità: parola-ombrello che ha a che fare sia con l’ambiente sia con l’etica e la politica sia un po’ pure con la salute.
Secondo un recente sondaggio quasi tutti gli italiani (addirittura l’88%, quasi nove su dieci) sono disposti anche a spendere di più pur di comprare a chilometro 0. Perché? Per una serie di motivi. E tra questi, primeggia l’attenzione all’ambiente, la cosiddetta impronta ecologica: più un cibo viene da lontano, più benzina o altra energia consuma, più inquina e immette gas serra, contribuendo al riscaldamento globale. L’idea è questa un po’ dappertutto, non solo in Italia ma anche in Usa, secondo un altro sondaggio. Tanto che l’Oxford English Dictionary attesta il neologismo locavore (come onnivoro, frugivoro…): chi mangia solo cibo locale.
Bene: peccato che sia un’idea sbagliata. Controintuitivo, ma innegabile: mangiare locale non fa bene all’ambiente. Non che faccia male eh: fa benino, un pochino, insomma di certo il km zero non salverà il mondo dalla catastrofe climatica. Però: questo non è un buon motivo per non farlo: i vantaggi ci sono, e sono tanti, ma sono altri.
L’impronta del trasporto sull’ambiente
Sappiamo benissimo che uno dei problemi del mondo contemporaneo è quello delle emissioni legate ai trasporti: più di un quarto in Europa provengono da automobili, camion e aerei, soprattutto. Eppure, è noto da anni che nelle emissioni di gas serra causate dal cibo, quelle che provengono dal suo trasporto sono in minoranza: secondo uno studio del 2008 circa l’11%. E analisi successive espongono numeri ancora più bassi: il 5% in Usa e il 6% in Europa.
Che cos’è allora che impatta di più, nel cibo? Semplice: che tipo di cibo è, e per essere precisi, se è di origine animale o meno. Gli allevamenti generano metano e ossido di diazoto (il terzo gas serra dopo metano e CO2) attraverso le eruttazioni degli animali, soprattutto i bovini, e il letame: molti più gas serra di quanti ne producano le coltivazioni di frutta, verdura, cereali e legumi.
Inoltre, c’è la nota sottrazione del terreno per coltivare mangime: per creare un certo numero di proteine animali ci vanno molti più metri quadri di terreno di quanti ne siano necessari per produrre lo stesso ammontare di proteine vegetali. Un procedimento assolutamente antieconomico, che continuiamo a portare avanti. Si tratta poi di monocolture industriali come mais e soia, che ormai dominano i campi in modo assoluto. E che sono – en passant, ma mica poi tanto – dannose per l’ambiente in modi molteplici: uno di questi è il legame con i periodi di siccità che ci affliggono da un po’ di anni a questa parte. Semplificando, si potrebbe dire che gli allevamenti (con)causano il riscaldamento globale e poi ne acuiscono le conseguenze accaparrandosi la poca acqua che rimane. Un uno-due micidiale.
Infine gli allevamenti animali non solo rappresentano un costo in termini di emissioni, direttamente e indirettamente, ma sono responsabili anche di un “mancato guadagno” relativamente alla possibilità di limitare i danni dei gas serra: infatti i pascoli e le piantagioni dedicate alla produzione di mangime potrebbero essere riforestate con piante che catturano l’anidride carbonica.
Anche se al trasporto si aggiunge tutto quello che gli gira attorno e che ha a che fare con i cibi processati, come appunto la trasformazione, il confezionamento e la refrigerazione nel punti vendita, siamo sempre sotto percentuali ridicole: addirittura per la carne meno dell’1%.
I vantaggi del km 0
Allora, il chilometro zero vale zero? Pura fuffa, l’ennesimo trucco di marketing per gastrofissati radical chic? Ma no. Ci sono anche altri aspetti oltre a quello della produzione di gas serra, benché quest’ultimo sia oggi effettivamente il problema più pressante (a parole, perché poi nei fatti basta un conflitto o un accenno di inflazione per far mettere da parte le politiche green e ventilare riaperture delle centrali a carbone). I supposti vantaggi di consumare cibo locale sono stati analizzati in una meta-analisi, cioè uno studio che raggruppa i dati di molte ricerche già fatte, e il risultato è che la maggior parte di questi sono effettivi.
Innanzitutto mangiare locale e comprare dai mercati dei contadini porta a consumare più vegetali, ad andare meno al ristorante, a cucinare di più e diminuire i cibi processati: il tutto si riflette in minori tassi di obesità e diabete.
Poi, naturalmente consumare locale può portare benefici diretti ai piccoli produttori, che guadagnano di più, hanno verificato alcuni studi. È la cosiddetta filiera corta, che saltando alcuni passaggi di intermediari porta maggiori introiti nelle tasche dei contadini senza far lievitare il prezzo finale a livelli impossibili.
Ci sono poi aspetti più controversi: uso di fertilizzanti e pesticidi, tutela del lavoro, benessere animale, rispetto delle normative sanitarie. Qui c’è da sottolineare che l’associazione mentale che ormai facciamo tra piccolo-naturale-onesto può nascondere tranelli. Se da un lato le pessime condizioni di vita degli animali sono intrinseche nell’allevamento intensivo, le leggi su salute e dipendenti è più facile che vengano rispettate nelle grandi industrie, più soggette a controlli, che nelle imprese piccole. Fertilizzanti e pesticidi, poi, sono tenuti alla larga solo se l’azienda agricola è biologica, oltre che piccola: una corrispondenza frequente, ma non assicurata.
Viene citato infine una aspetto più immateriale, psicologico, che però non è meno importante: la creazione di reti locali, il contatto diretto tra produttori e consumatori, i legami sociali e umani, insomma. Hai detto niente.