L’appello per l’educazione alimentare deve fare strada, ma nelle scuole ci sono cattive maestre: le mense

L'appello dell'Università di Scienze Gastronomiche e Slow Food è buono, pulito e giusto: si insegni l'educazione alimentare nelle scuole. Ma le mense scolastiche, per come stanno messe in Italia, rischiano di contraddire le maestre.

L’appello per l’educazione alimentare deve fare strada, ma nelle scuole ci sono cattive maestre: le mense

“Ma ti sembra normale? Mio figlio oggi ha trovato una vite – una vite! – nella pasta della mensa!”. Questo messaggio, neanche farlo apposta, mi è arrivato oggi da un amico torinese ma, a essere sinceri, avrebbe potuto arrivare più o meno da qualsiasi città italiana, visto che, di tanto in tanto da Nord a Sud, i servizi di mensa nelle scuole non mancano di riservare sorprese. Poco dopo, neanche a farlo apposta, mi arriva la comunicazione del nuovo appello dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (che proprio in questi giorni sta festeggiando il suo ventennale) e di Slow Food Italia, che esorta il Governo a inserire l’educazione alimentare tra le materie di studio nelle scuole di ogni ordine e grado (se volete firmarlo, lo trovate qui).

“Col cibo si educa, col cibo si cambia”, dice Slow Food, tramite il suo fondatore e presidente dell’Università di Scienze Gastronomiche Carlo Petrini. “A venti anni dalla nascita dell’Università di Pollenzo, saper leggere il mondo attraverso le lenti delle scienze gastronomiche risulta ancora più necessario per interpretare le grandi crisi che stiamo vivendo e che le ragazze e i ragazzi di oggi saranno chiamati a fronteggiare”, dice Slow Food. “Sfide per le quali occorrono risposte e soluzioni efficaci, che solo una formazione professionale in grado di coniugare le esigenze del mondo produttivo con una visione del cibo che sappia rispondere alle sfide economiche, sociali, ambientali e climatiche attuali, può assicurare”.

Cosa dice l’appello di Slow Food e di Unisg

petrini e barbero

 

“La logica che deve guidare il sistema alimentare non può essere che “bio” in senso etimologico, cioè imperniata sulla vita”, sottolinea Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia. “Nessuno sviluppo degno di questo nome, infatti, oggi può essere disgiunto da un approccio che lo renda prima di ogni cosa sostenibile, durevole, armonico. In antitesi al cibo come “commodity”: prodotto per essere venduto, invece che per nutrire il corpo e lo spirito; prodotto per i mercati finanziari e soggetto a speculazioni; cibo che viene sprecato, a livello globale, per un terzo della produzione complessiva: ecco che l’educazione alimentare ci insegna la cultura del necessario per contrastare lo spreco”.

Da qui l’appello al Governo, a cui Slow Food e Unisg (e le oltre undicimila persone che hanno già firmato) chiedono di insegnare nelle scuole l’educazione alimentare e i comportamenti alimentari virtuosi, trasformando la tavola “in un luogo di consapevolezza e piacere”, oltre al luogo “o in cui la conversione ecologica prende corpo in maniera più rapida, efficace, concreta e quotidiana”.
Chi scrive ha firmato (con convinzione) questo appello, con la certezza che l’educazione alimentare sia qualcosa da insegnare davvero alle nuove generazioni (insieme a tante altre cose, come la sempre tralasciata educazione civica, ma questo è un altro discorso). Però – c’è un però – nonostante la convinzione, mi sono trovata a pormi due grandi domande, su cui sarà necessario trovare un accordo, se si vuole che questo appello abbia davvero successo.

Chi decide cosa è la giusta educazione alimentare?

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L’educazione alimentare a scuola è utile, non c’è dubbio. Ed è pure bipartisan, evidentemente, visto che non mendo di poche settimane fa aveva lanciato un’idea del tutto simile anche il Ministro della Salute Orazio Schillaci. Dal suo punto di vista, sarebbe stato utile, se non addirittura necessario, insegnare i “corretti stili di vita” fin dalla prima elementare, con la stessa frequenza che un tempo si dedicava all’educazione civica (rieccola, la cara vecchia e dimenticata educazione civica) focalizzandosi sulla dieta mediterranea e sui suoi benefici. “È un paradosso anche solo pensare che la dieta mediterranea, che io definisco italiana, venga lodata da tutto il mondo scientifico e poi, proprio dov’è nata e soprattutto tra le giovani generazioni, sia poco seguita”, aveva detto il ministro.

Al di là del trovare l’accordo generale su cosa significhi realmente “dieta mediterranea” – un’espressione che ha perso molto del suo significato originale, fatto di molto vegetale, a favore di un senso più pop, fatto di pasta e carne – il punto è che, solo per fare un esempio, il tema dell’educazione alimentare visto con gli occhi di questo Governo potrebbe essere (a torto o a ragione) molto diverso da quello inteso da Slow Food. Basti pensare alle ultime esternazioni del Ministro Francesco Lollobrigida, che ha difeso la sostenibilità economica delle aziende agricole invitando a non eccedere in sostenibilità ambientale per ideologia.
Ecco, la domanda è: come si conciliano queste due diversissime visioni del cibo, del futuro, dell’ambiente e dello sviluppo economico? Come si trova un accordo su cosa, a proposito di tutto questo, va insegnato a scuola? E chi lo deciderà? La storia è storia, al di là delle interpretazioni personali. La geografia è una mappa. L’educazione alimentare può essere tutto (perfino un’alimentazione a base di fast food, paradossalmente), a seconda dell’interlocutore.

Il problema delle mense scolastiche

Il vero nodo della questione, però, è un altro. Ovvero: come possiamo raccontare ai bambini e alle bambine cos’è il cibo buono, pulito e giusto se contemporaneamente nel piatto che gli serve la loro mensa trovano una vite?

Che poi – si dirà – quello della vite è un episodio. Se volete saperne un altro, a scuola di mia figlia a novembre venne riportato con una tranquillità che allora trovai eccessiva e che non manca di sorprendermi, che erano stati trovati dei non meglio specificati vermi nell’insalata. Segno forse che era fresca di raccolta dall’orto, per carità, allora non mi fu data l’occasione di approfondire.

Ma anche se non si trovassero di tanto in tanto corpi estranei (vivi o inanimati) nelle pietanze dei nostri figli, questo non significherebbe che nelle nostre mense non c’è un problema. Ed è un problema legato alla qualità del cibo, alla qualità delle materie prime, e anche a quanto siamo disposti a spendere per dare ai nostri ragazzi da mangiare ogni santo giorno. Troppa carne. Troppo poco racconto della filiera, e del prodotto. Troppa poca varietà. Troppa superficialità in un argomento che – ha ragione da vendere Slow Food – è letteralmente vitale per tutti.

E allora, se davvero vogliamo insegnare il cibo a scuola, a quel punto il cibo che serviamo nelle mense deve per forza andare di pari passo.