Ancora state lì a riempirvi la bocca di Kamut?
Ancora state lì a cullarvi nell’illusione del mitico grano dei faraoni, del grano antico di ben 4000 anni i cui semi sarebbero stati miracolosamente ritrovati da un pilota americano nel lontano 1949 in una vecchia tomba dell’antico Egitto – dove altro? – e poi miracolosamente arrivati nel Montana, e da lì fino ai giorni nostri?
Bene, se siete tra i pochi che ancora credono a questa bella favoletta, allora meritate inevitabilmente di mangiarvi –ma il termine corretto serebbe “bervi”– la vostra bella pagnottina di farina “di Kamut”.
Il Kamut è un’invenzione.
O meglio, diciamo che non è quello che molti, troppi forse, intendono, vale a dire una tipologia di frumento, tipo grano Rieti o Senatore Cappelli.
Invece Kamut non è affatto una varietà di grano.
E’ semplicemente un marchio. Sì, un marchio. Come dire Nivea, o Coccolino o anche Cif.
Come avrebbero fatto, d’altronde, dei semi vecchi di 4000 anni germinare ancora dopo un tale periodo di tempo? Senza contare, inoltre, che gli antichi Egizi pare nemmeno lo conoscessero il frumento, coltivando invece solamente farro e orzo.
Tutta una leggenda, quindi, un’invenzione arrivata d’oltreoceano, né più né meno dei nostri bucolici e rassicuranti mulini bianchi.
La cruda realtà, invece, è che nel 1987 i Quinn, una famiglia di agricoltori del Montana, ebbero la bella idea di dare un nome egizianeggiante, con relativa storiella, ad un tipico grano ancora oggi coltivato in Iran, il grano Khorasan, registrandone il nome di fantasia ma comunque di origine egiziana“Kamut”.
“Kamut” quindi non è un grano, né tantomeno il grano dei faraoni, ma è più semplicemente e prosaicamente un marchio registrato.
Vero invece è il frumento di tipo Khorasan, appartenente al genere Triticum, che prende il nome dalla provincia dell’Iran dove è coltivato ancora oggi; originario dell’Anatolia e coltivato anche in Asia e in Africa settentrionale –in Egitto appunto, dove presumibilmente i semi vennero acquistati senza andare a disturbare faraoni e mummie varie– arrivò poi nel Montana, dove gli fu abilmente cambiato “nome” dall’ordinario Khorasan al più ammiccante Kamut.
Dopo un periodo di “protezione”, una sorta di registrazione o brevetto che permetteva solo alla Kamut International di seminare e commercializzare il grano Khorasan, ora i “preziosi” semi sono divenuti di dominio pubblico, e il grano è da tutti liberamente coltivabile.
Il Khorasan è una varietà di grano duro, con resa più bassa e scarsa capacità di adattamento rispetto ai grani comuni, con bassa resistenza a funghi e malattie varie. I chicchi sono molto grossi, quasi il doppio di un chicco normale, e presentano una buona dose di glutine e di proteine.
Per quanto riguarda le sue caratteristiche nutrizionali, bisogna precisare che nonostante la leggera differenza di sapore il grano Khorasan non presenta caratteristiche migliori rispetto agli altri tipi di grano duro.
Né i prodotti a base di farina di Kamut possono essere considerati più salutari di altri –a differenza di quelli prodotti con farina integrale, loro sì veri scrigni di nutrienti preziosi– ma nonostante questo, negli ultimi anni il suo consumo è cresciuto in maniera costante e progressiva.
A tal punto che, oggi, l’Italia rappresenta il mercato più grande per il Kamut, il grano “antico”, quindi per definizione sano ed ecosostenibile, nonostante non presenti particolari proprietà nutrizionali e che sia tutto il contrario di quel che si dice un “prodotto a km zero”, considerato che la maggior parte proviene da Stati Uniti e Canada, giusto qui dietro l’angolo.
Ed essendo inoltre un prodotto contenente glutine, non può nemmeno essere utilizzato nell’alimentazione dei celiaci.
Se infine aggiungiamo che il costo della farina o dei prodotti a base di Kamut è superiore a quello della normale farina di grano, viene da chiedersi quale sia il motivo di questa generale e inspiegabile infatuazione collettiva.
Probabilmente, la magia dei faraoni ha veramente graziato il semplice grano Khorasan. E anche, ovviamente, la Kamut International.
[Crediti: Link: Dario Bressanini]