L’altra sera sono al ristorante e accanto a me c’è un tavolo da otto.
Il malaugurato cameriere cui tocca in sorte il desco s’avvicina —non è mia abitudine origliare, ma è a un metro— e fa la fatidica domanda: “qualcuno ha intolleranze?”
Apriti cielo.
[Di intolleranze, finte intolleranze e cuochi intolleranti alle intolleranze]
E no: non è una comitiva proveniente dal centro allergologico più vicino, è un tavolo di normali coppie apparentemente in salute. Purtuttavia una prima ragazza dichiara di essere celiaca.
E ci sta. Per carità. La celiachia è una malattia. Spiacevolissima, peraltro. Certo. D’accordo.
Una seconda è vegetariana. Che scelta importante, eco-friendly: brava, brava.
“Vegetariana, corretto, o vegana?”, le chiede cortesemente il cameriere. “Quasi vegana”, risponde lei. Va be’, vorrà dire che le porterà del quasi burro, penso io.
[Intolleranze alimentari e allergie: se ne soffrite state a casa vostra, scrive Camillo Langone]
Una terza “non mangio frutti di mare”. Diamine, mi spiace, non sai cosa ti perdi. E comunque, dai, ochei.
Il fatto è che non uno —NON UNO SU OTTO-– tace. Non uno.
E non che vadano incontro a un menu fisso: possono scegliere liberamente alla carta, il cameriere chiede più che altro per gli amuse-bouche, la piccola pasticceria e buona creanza.
Insomma: vanno avanti così finché l’ultimo scherzando dice “io non mangio le cose cattive.” Ah ah ah. Che forte.
Io in quell’istante capisco quattro cose.
— La prima è che sono fortunato a essere onnivoro;
— La seconda è che le malattie son malattie, e sono proprio una sfiga;
— La terza è che c’è tanta gente in giro che spacca i maroni al prossimo senza un perché;
— La quarta è che non farò mai il cameriere in un ristorante elegante.
Potrei non rispondere delle mie azioni.