Se all’idea che il mondo stia vivendo un’epidemia gigantesca vi viene in mente “solo” il Covid, forse dovreste pensare con maggior lungimiranza, e magari guardare all’influenza aviaria. Se c’è una cosa che il Coronavirus, con tutte le sue terribili conseguenze, dovrebbe averci insegnato, è che è bene non arrivare impreparati a una pandemia. Prevenire è meglio che curare, dicevano una volta le nonne, e il principio sembra essere ancora valido. Eppure la lezione sembra faticare a entrarci in testa, tanto che oggi, con ogni probabilità, ci stiamo preoccupando ancora troppo poco dell’influenza aviaria.
Un virus la cui diffusione è stata facilitata, nei paesi asiatici, dalla vendita di pollame vivo ai mercati. Un virus che ha manifestazioni molto diverse, ma che nelle forme altamente patogeniche fa insorgere una malattia improvvisa, “seguita da una morte rapida quasi nel 100% dei casi” (fonte: ISS). Un virus instabile, soggetto a numerose mutazioni, che può avere uno “shift genetico”, ovvero può vedere la nascita di un nuovo sottotipo virale capace di indurre la malattia anche in soggetti che siano stati preventivamente vaccinati contro i ceppi parentali.
Vi ricorda per caso qualcosa? Be’, dovrebbe.
I dati dell’epidemia di aviaria nel mondo
Con l’influenza aviaria – malattia degli uccelli causata da un virus dell’influenza di tipo A – ci abbiamo a che fare da tanto, da molto più di quanto possiate pensare (in Italia è stata identificata per la prima volta più di un secolo fa). Tuttavia oggi siamo a un punto particolarmente preoccupante, inutile negarlo. L’epidemia che stiamo affrontando nei pollai, e che ha preso il via nel corso del 2003, sembra essere arrivata a un punto di non ritorno. In quest’ultimo anno il virus ha circolato come non mai. Negli Stati Uniti, nei primi nove mesi dell’anno, sono stati colpiti quasi 50 milioni di volatili in 42 stati.
E non va meglio in Europa, a giudicare dal rapporto redatto dalla European Food Safety Authority (EFSA), dallo European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) e dall’EU Reference Laboratory for Avian Influenza , che dice chiaramente che “la stagione epidemica dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) 2021-2022 è la più grande epidemia di HPAI finora osservata in Europa, con un totale di 2.467 focolai nel pollame, 47,7 milioni di volatili abbattuti negli stabilimenti colpiti, 187 focolai negli uccelli in cattività e 3.573 Rilevazioni del virus HPAI in uccelli selvatici con un’estensione geografica senza precedenti che si estende dalle isole Svalbard al Portogallo meridionale e all’Ucraina, colpendo 37 paesi europei“.
In breve, l’aviaria è un problema serio come mai prima, e non riguarda solamente il fatto che non troveremo più uova su cui grattare il tartufo, tacchini per il Giorno del Ringraziamento o foie gras per le nostre cene d’occasione.
I pericoli per l’uomo
“Secondo gli epidemiologi, ci sono una serie di elementi che rendono H5N1 il candidato favorito per una prossima pandemia“: a dirlo non siamo noi, ma l’Istituto Superiore della Sanità. Il rischio di salto di specie, è il caso di dirlo senza passare per inutili allarmisti, con questi numeri si fa sempre più alto.
“Dall’inizio del 2003, H5N1 ha effettuato una serie di salti di specie, acquisendo la capacità di contagiare anche gatti e topi, trasformandosi quindi in un problema di salute pubblica ben più preoccupante“, spiega l’Istituto Superiore della Sanità . “La capacità del virus di infettare i maiali è nota da tempo, e quindi la promiscuità di esseri umani, maiali e pollame è notoriamente considerata un fattore di rischio elevato“. E ancora, l’ISS fa presente come: “nelle epidemie recenti, a partire dal 2003, è stata documentata la capacità di questo virus di contagiare direttamente anche gli esseri umani, causando forme acute di influenza che in molti casi hanno portato a morte. Il rischio principale, che fa temere l’avvento di una nuova pandemia dopo le tre che si sono verificate nel corso del XX secolo (1918, 1957, 1968), è che la compresenza del virus aviario con quello dell’influenza umana, in una persona infettata da entrambi, faciliti la ricombinazione di H5N1 e lo renda capace di trasmettersi nella popolazione umana“.
Insomma, gli allevamenti – in particolare gli allevamenti intensivi, ma ormai il problema pare essere molto più allargato – sono oggettivamente un rischio. Un rischio che dovremmo iniziare a prendere in considerazione seriamente, se non vogliamo ripiombare di nuovo nel 2020. Attualmente, vale la pena sottolinearlo, il rischio per l’uomo di contrarre il virus è legato solo al contatto con le secrezioni di un animale infetto. “Il virus non infetta facilmente gli esseri umani e la diffusione da persona a persona sembra essere insolita“, spiega l’Organizzazione Mondiale della Sanità, spiegando anche che “Non ci sono prove che la malattia possa essere trasmessa alle persone attraverso cibo adeguatamente preparato e accuratamente cotto“. Però, un giorno, potrebbe non essere più così, e dovremmo arrivare a quel giorno adeguatamente preparati.
Già da tempo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato un allarme a tutte le istituzioni internazionali a cooperare per attuare piani e azioni preventive per ridurre il rischio di passaggio all’uomo del virus aviario. Le misure precauzionali (che prevedono controlli e disinfezione degli allevamenti dei mercati) in Italia sono regolamentate da un’ordinanza di polizia veterinaria approvata dal ministero della Salute nell’agosto 2005. Il piano pandemico nazionale, pubblicato nel 2022, prevede la sorveglianza sul territorio per la segnalazione dei casi sospetti di influenza aviaria nell’uomo, la vaccinazione di massa con il vaccino dell’influenza umana, per ridurre il rischio di co-infezione tra virus aviari e dell’influenza umana, e quindi abbassare la probabilità di mutazione del virus aviario, la messa a punto delle misure di isolamento dei casi sospetti, lo stockpiling di farmaci antivirali e uno sviluppo di vaccini contro il virus aviario. È sufficiente? Probabilmente non più, visto l’aggravarsi della situazione.