Il tartufo è un fungo ipogeo che cresce in Italia in diverse varietà. Il suo tessuto è composto d’acqua all’80%, ma anche potassio, calcio, sodio, zinco, rame, magnesio e si sviluppa in prossimità delle radici di alcune piante. Possiamo quindi dire che il tartufo sia veramente vegano? La risposta giusta è: dipende. Sulla filiera di cerca e cava del tartufo infatti, si pongono diversi interrogativi che potrebbero interessare la comunità vegana e che spiegano perché molti blogger vegani e siti dedicati a community vegane non propongano ricette con il tartufo. Invece con altri tipi di funghi sì.
Come funziona la cava e cerca del tartufo
Nella ricerca del tartufo il supporto degli animali è imprescindibile. Scrivo “animali” al plurale non a caso, poiché storicamente gli animali impiegati nella cerca sono diversi: maiali e cani in primis. In Russia venivano impiegati addirittura gli orsi. Per facilità di addestramento, i cani hanno preso un posto stabile accanto al cercatore di tartufo (in piemontese trifolau). L’addestramento a cui vengono sottoposti gli animali non è pratica che si possa liquidare nel giro di poche righe. Tanto più che il metodo varia da cercatore a cercatore.
Tuttavia sottolineo che si tratta di un’arte antica che non contempla solo aspetti commerciali, ma anche culturali e naturalistici che coinvolgono il particolare rapporto tra uomo, cane e ambiente.
Negli anni le razze canine riconosciute come le più adatte per la cerca del tartufo sono state lo spinone, l’epagneul breton, il bracco, il pointer, il lagotto. Questi cani vengono addestrati nel tempo a riconoscere il profumo del tartufo con piccoli espedienti, ricevendo un premio per ogni cerca andata a buon fine. Quando il cane ravvisa il punto in cui si trova il tartufo, anche parecchi metri sotto terra, comincia a scavare.
A un certo punto interviene il cercatore, a cui spetta il resto del lavoro di recupero del tartufo e che carpisce il punto esatto anche in base alla composizione dell’ambiente, ovvero in prossimità delle radici delle piante simbionti grazie alle quali il tartufo prolifera.
Maltrattamenti sugli animali che cercano il tartufo?
Nel mondo vegano ma più in generale animalista si è spesso insinuato il dubbio che, al fine di rendere più efficiente il cane nella cerca del tartufo, il trifolau possa sottoporlo a maltrattamenti. Possiamo dire che alla cronaca sono noti episodi di crudeltà verso gli animali, gesti che vengono ritenuti reati punibili dalla legge, qualora l’animale venga detenuto in condizioni brutali, in spazi angusti e sporchi, senza cibo e senza cure.
Nel 2014 in provincia di Chieti due cercatori furono denunciati dalla Guardia Forestale, nel 2020 un cercatore è stato segnalato in Molise per aver utilizzato un collare elettrico sul proprio cane da ricerca. Lo stesso era avvenuto nel 2013 con un cercatore nella zona di Urbino. In ogni caso, il numero di infrazioni venute alla luce sembra suggerire che si tratti fenomeni isolati e non massivi, ascrivibili a individui che commettono anche altre scorrettezze nella cerca del tartufo, come la raccolta in periodi non consentiti dalla legge.
La cava e cerca del tartufo patrimonio Unesco
Un’ulteriore conferma degli aspetti rituali e culturali della cerca del tartufo potrebbe venire dall’intervento dell’Unesco che nel 2021 ha iscritto “La cava e cerca del tartufo in Italia” nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale. La motivazione che ha portato ad approvazione la candidatura presentata dalla Federazione Nazionale Tartufai Italiani (FNATI) e dall’Associazione Nazionale Città del Tartufo (ANCT) sottolinea proprio gli aspetti antropologici, culturali e sociali legati al mestiere della cerca e cava del tartufo, un mestiere che è la sintesi di una serie di pratiche affinate nel tempo dall’esperienza, trasmesse per lo più oralmente e quindi da tutelare.
All’interno della nomina si legge che “Il Comitato, nell’adottare la decisione, ha invitato l’Italia a prestare attenzione al rischio di una potenziale eccessiva commercializzazione e a garantire la sorveglianza e la buona gestione delle attività turistiche. Il Comitato raccomanda inoltre di tenere in considerazione il benessere del cane sia nell’ambito delle attività di cerca e cavatura del tartufo che durante la pianificazione e l’attuazione delle misure di tutela. L’ultimo suggerimento dato è la condivisione delle esperienze di tutela con altri Stati con caratteristiche simili”.
L’Unesco apre dunque uno spartiacque importante sulle opportunità di cerca del tartufo che vanno viste non solo in ottica commerciale ma anche nell’interesse dello stato di salute dell’animale. In effetti anche per la comunità vegana sussiste una bella differenza tra chi cerca tartufi come hobbista, per la famiglia, per gli amici e per venderli ai ristoranti e chi invece lo fa in grandi numeri con fini prettamente commerciali, destando il sospetto di dimenticare le buone pratiche di convivenza tra uomo e cane. Sospetto che però, ad oggi, non risulta alimentato da nessuna evidenza certa.
Nel documento di presentazione della relazione antropologica dell’ANCT si sottolinea anche la dimensione affettiva tra i due interlocutori citando le parole del tartufaio e allevatore Ivano Vanni in riferimento al cane che trova il tartufo: “L’importante è che ogni volta che lo ritrova sia adeguatamente premiato dandogli un pezzetto di pane, un biscotto ma soprattutto tante, ma tante coccole. Il cane tante volte vuole l’affetto e la stima dell’uomo, che lo ripagano di più del biscotto”.
Gli animali necessari per l’esistenza stessa del tartufo
Un aspetto che mi pare piuttosto trascurato riguarda il fatto che il tartufo stesso non esisterebbe se non esistessero gli animali. Come spiega il manuale di Slow Food Alla scoperta del tartufo: “A differenza dei funghi che sviluppano corpi fruttiferi al di sopra del terreno, gli ipogei non possono sfruttare le correnti d’aria per la dispersione delle spore. L’evoluzione li ha quindi dotati di un forte odore, percepibile solo al momento della maturazione, che attira insetti, molluschi, rettili e mammiferi i quali, cibandosi del tartufo, provvedono alla diffusione delle spore”. In quest’ottica gli animali entrano in modo stabile nell’ecosistema ambiente-tartufo rendendone possibile, in modo assolutamente naturale, l’esistenza stessa.
Le voci della comunità vegana
Come anticipavo, le risposte della comunità vegana sono divergenti. Sul sito Vegan First la discussione viene lasciata aperta: “Come facciamo a distinguere se un tartufo è vegano o no? Il fungo vero e proprio lo è, ma il processo no. Dipende da ciò che si crede personalmente e da quanto è rigida o sfocata la propria visione in merito. Stiamo lasciando le linee aperte alla discussione e ci piacerebbe sentire cosa ha da dire la comunità vegana”. Sui portali online come Io Scelgo Veg, Vegolosi, Natureat non sono incluse ricette che comprendano anche il tartufo.
Un problema di filiera
Il discorso del tartufo che, visto dalla prospettiva di un non-vegano potrebbe risultare superfluo, apre quindi un capitolo che mi interessa sottolineare a gran voce. Mi spiego meglio: nel caso del tartufo non è tanto il prodotto, quanto la filiera a generare episodi, per quanto sporadici, di abusi e maltrattamenti. E questo è valido sempre, in tutte le filiere alimentari. La stessa sensibilità sarebbe necessaria anche verso persone che raccolgono e coltivano frutta e verdura sotto il sole bollente per pochi euro l’ora, come dimostrano le numerose indagini sul caporalato in Italia o sulle condizioni dei braccianti. In quel caso va bene perché invece che tartufi a prezzi esorbitanti abbiamo “innocui” pomodori?
A questo proposito la vicenda del tartufo è una cartina al tornasole della necessità di regolamentare, indagare, rendere trasparente, condiviso e consapevole come un alimento arriva fino a noi. Questo aspetto è spesso più importante dell’alimento in sé. È la filiera a fare la differenza. È sempre la filiera.
In copertina: Photo by Andrea Cairone on Unsplash