Spesso, per spaventarci o darci una svegliata, ci diciamo che il riscaldamento globale cambierà le nostre vite, compreso quello che portiamo il tavola. A volte, se vogliamo proprio fare del terrorismo psicologico, sottolineiamo che ci sono cibi che rischiano semplicemente di scomparire a causa del cambiamento climatico, o come minimo di diventare rarissimi (e super costosi). Ecco, dobbiamo darvi una notizia: il riscaldamento globale ha già cambiato il nostro modo di mangiare. È una prospettiva che non appartiene (solo) al futuro, ma sta già succedendo, è già successa.
Un gruppo di ricercatori dell’Università della Columbia Britannica, Canada, è arrivato a questa conclusione attraverso uno studio dalla metodologia assolutamente insolita, quanto efficace: invece di studiare le variazioni della temperatura e della fauna locale, hanno studiato come sono cambiati i menu dei ristoranti.
Si legge nello studio: “I cambiamenti climatici stanno causando cambiamenti nella biogeografia delle specie marine, verso latitudini più elevate, acque più profonde o seguendo gradienti di temperatura locali. Tali cambiamenti nella distribuzione delle specie stanno influenzando la pesca globale aumentando il predominio delle specie che preferiscono acque più calde all’aumentare della temperatura dell’oceano. Precedenti analisi di modelli prevedevano che i cambiamenti indotti dal clima nella disponibilità di prodotti ittici avrebbero influenzato l’intera catena dei prodotti ittici. Tuttavia, gli impatti climatici osservati sui rivenditori e sui consumatori di prodotti ittici sono stati raramente dimostrati. I ristoranti di pesce di solito fanno affidamento sulla fornitura di specie catturate localmente, e quindi l’impatto del cambiamento delle catture sul cibo che servono e, di conseguenza, sui loro commensali, può riflettersi nei loro menu”.
“Con un menu, hai una registrazione che puoi confrontare nel tempo”, ha detto William Cheung, biologo della pesca presso l’UBC e tra gli autori dello studio, all’Hakai Magazine. Cheung ha trascorso la sua carriera a studiare il cambiamento climatico e i suoi effetti sugli oceani del mondo. Ha contribuito a molti dei rapporti storici del Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ma insieme a John-Paul Ng, uno studente universitario dell’UBC, ha voluto trovare un modo diverso per studiare e comunicare questi cambiamenti. “Molte persone, specialmente a Vancouver, vanno al ristorante per il pesce, quindi volevamo vedere se il cambiamento climatico avesse influenzato i tipi di pesce serviti dai ristoranti”.
Nello studio, “362 menu di ristoranti di Vancouver sono stati raccolti e analizzati in quattro diversi periodi di tempo (1880–1960, 1961–1980, 1981–1996 e 2019–2021). Sono stati inoltre raccolti 148 menu odierni di altre due città a nord (Anchorage, in Alaska) e a sud (Los Angeles, California). È stato calcolato un indice, chiamato temperatura media del pesce del ristorante (MTRS), basato sulla preferenza di temperatura media delle specie identificate nei menu per ogni periodo o luogo. Nel complesso, l’MTRS dei menu di Vancouver è aumentato da 10,7°C a 13,8°C tra il 1888–1960 e il 2019–2021. Il MTRS attuale è naturalmente più alto a Los Angeles (16,5°C) e più basso ad Anchorage (9,6°C).
Mentre reperire i menu attuali ha richiesto fantasia (in certi casi i ricercatori sono dovuti ricorrere a TripAdvisor) ma tutto sommato è stato agevole, scavare nella storia del pescato di Vancouver si è rivelato un po’ più complicato. Ha richiesto l’aiuto dei musei locali, delle società storiche e persino del Comune, che sorprendentemente ha registrazioni di menu dei ristoranti che risalgono a oltre un secolo fa.
I menu sono frutto di un equilibrismo tra vari fattori: le scelte dello chef, le preferenze dei clienti, ma anche la disponibilità delle materie prime. David Baarschers, executive chef dell’Hotel Vancouver racconta che quando lui e il personale del ristorante decidono quali pesci ordinare, devono trovare un barcamenarsi tra disponibilità e gusto del cliente. “Di solito parliamo con i fornitori”, spiega Baarschers. “Ok, cosa sta arrivando in questa stagione? Cosa riuscirai a fornirci nella quantità che ci consentirà di inserirlo nel nostro menu?”.
Con l’intensificarsi del riscaldamento globale, le specie che possono entrare in menu continuano a cambiare. Come prevede lo studio, le specie locali di acqua fredda come il salmone rosso continueranno a diminuire nei menu di Vancouver. Nel 2019, la Columbia Britannica ha registrato la cattura di salmone più bassa in oltre 70 anni.
D’altra parte, le specie meridionali si stanno spostando. Uno dei più notevoli tra i nuovi arrivati non è un pesce, ma il calamaro di Humboldt, o tonto gigante del Pacifico, che ha iniziato ad apparire sia nelle reti dei pescatori che nei ristoranti di tutta la città. Per uno chef, egoisticamente può essere anche un fatto positivo, questo allargamento della disponibilità. Ma bisogna tenere conto anche delle abitudini dei clienti: “Tutti aspettano che arrivi la stagione dell’halibut“, dice Baarschers. “E se non ce l’hai nel menu, la gente si chiede perché”.
E dalle nostre parti? Sarebbe interessante fare un’indagine analoga, anche empirica. Personalmente, ricordo che quando più di vent’anni fa sono emigrato al nord, c’erano alcune verdure tipiche delle regioni meridionali che qui non sapevano neanche cosa fossero. La scarola, per dirne una: ora, la trovo a qualsiasi banchetto dei più mainstream dei mercati. Io spero, ma davvero, che sia un aspetto di quel fenomeno che ha a che fare con la globalizzazione e l’uniformità del gusto nazionale, o a volergli dare una lettura positiva con l’allargamento delle conoscenze gastronomiche: vent’anni fa al nord non erano manco così noti casatiello e pastiera, mentre oggi tutti discettano di pasta alla Nerano come se non avessero mai mangiato altro fin da piccoli. Ma se così non fosse, o se insieme a questa causa culturale ci fosse anche una maggiore facilità nel produrre certi tipi di cibo adatti a climi più caldi?
Non si tratta solo di supposizioni: è noto il costante alzarsi verso il nord della linea della palma. E da circa dieci anni si parla di innalzamento della linea dell’olivo, mentre per effetto dell’aumento delle temperature grandi sconvolgimenti sono appena iniziati nel mondo del vino: le regioni tradizionalmente rinomate come Borgogna e Champagne rischiano di perdere il proprio primato, mentre si affacciano nuovi produttori in zone fino a poco fa impensabili come la Gran Bretagna o addirittura la Scandinavia.
E per quanto riguarda la fauna marina, per esempio, è noto da almeno vent’anni il processo chiamato tropicalizzazione (o meridionalizzazione) del Mediterraneo: a causa delle acque sempre più calde e del fatto che il mare nostrum non è un bacino chiuso, arrivano (dal Mar Rosso tramite il canale di Suez e dall’Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra), nuove specie, che attualmente rappresentano quasi un terzo del totale dei pesci presenti nel Mediterraneo. Ci sono alcune specie di ricciola di origine africana, la bavosa africana e il pesce palla, il granchio Percnon gibbesi, il pesce scoiattolo e varie specie di triglia, che hanno colonizzato soprattutto la parte orientale del bacino. Magari di tutto questo non ci siamo ancora accorti perché non consumiamo solo pescato del giorno, e perché il mercato agroalimentare ha delle elasticità che riescono a scavalcare stagionalità e territorialità (ancora una volta a discapito dell’ambiente): ma ce ne accorgeremo presto.