Mucche felici, galline che razzolano all’aperto, conigli che corrono nei prati. Sono immagini, e frasi, che ricorrono con insistenza, nelle pubblicità e sulle confezioni di carne e altri prodotti animali. Perché il consumatore è sempre più sensibile al benessere delle bestie allevate, e anche se di leggi non ce ne sono, o sono vaghe, le imprese si danno da fare. Ma è tutto vero quello che dichiarano o che, più sottilmente, ci inducono a pensare? Secondo molte associazioni che tutelano gli animali, nella maggior parte dei casi si tratta di puro marketing, al limite del comportamento ingannevole nei confronti del consumatore. Tanto che da qualche anno è stato coniato, sulla scorta di greenwashing, un nuovo termine: humanewashing.
Che il consumo di carne attuale e gli allevamenti industriali così come strutturati oggi siano insostenibili, ormai lo sa anche il più accanito dei carnivori. Per l’ambiente, per la salute di chi mangia e, last but not least, per gli animali. Le soluzioni sul piatto sono molteplici, e non alternative ma concorrenti: consumare meno carne, anche se non diventeremo tutti vegetariani; implementare le alternative hi tech, come la finta carne vegetale o la carne coltivata in laboratorio; cambiare il sistema degli allevamenti, dando più peso ai piccoli produttori “etici” e spingendo quelli grandi ad adottare comportamenti virtuosi. E i grandi non si fanno pregare: solo che, ovviamente, intervenire sulla narrazione piuttosto che sulla sostanza è più facile, rapido ed economico. Ecco nascere lo humanewashing: il greenwashing è un ambientalismo di facciata, consistente nell’adottare superficiali misure “verdi” e nel far credere di aver abbandonato le pratiche maggiormente inquinanti. Lo humanewashing consiste nel fare affermazioni fuorvianti, esagerate o semplicemente false a proposito del trattamento “umano” degli animali, e delle condizioni in cui nascono, vivono e vengono uccisi.
Tipicamente si traduce in espressioni tanto suggestive quanto vaghe: “naturale”, “responsabile”, “locale”, “piccolo”, “felice” e in ancora più ingannevoli e generiche immagini associate, colline e contadini, colori pastello con prevalenza di verde e linee morbide; tutto, è chiaro, all’insegna del “come una volta”.
La vaghezza ha uno scopo ben preciso: è meno attaccabile.
Se infatti io dico che la mia gallina si nutre di mangimi biologici, questa affermazione può essere controllata e smentita; ma se dico che la mia gallina razzola felice, chi potrà mai contestarmi?
Come si certifica la felicità della mucca negli USA
In America gli allevatori industriali sono organizzatissimi, ma anche le associazioni animaliste non scherzano: è di recente stato pubblicato un report dell’associazione Farm Forward che smaschera trucchi e trucchetti delle multinazionali della carne. Negli Stati Uniti, come si accennava, non esistono stringenti regolamentazioni legali, ma ci sono degli enti certificatori privati cui le società possono aderire. Per esempio il Global Animal Partnership (GAP), creato nel 2008 da John Mackey, cofondatore del colosso Whole Foods: uno dei primi, dei più vasti (controlla 400 milioni di animali, certifica 1200 prodotti) e dei più stimati. Questo ente rilascia un bollino di cui possono fregiarsi le marche che accettano di sottoporsi ai suoi controlli: anzi, rilascia 5 bollini, a seconda del grado di aderenza a standard progressivamente più elevati. Uno dei problemi che ha individuato il report è che, per esempio, il livello più basso dei 5, che indica poco più di una generica volontà di sottostare ai controlli, viene comunque premiato con un’etichetta “Animal Welfare Certified”.
Situazioni simili sono in generale individuate in tutti gli enti certificatori. Tanto che il rapporto conclude: “Le certificazioni sul benessere sono progettate, apparentemente, per aiutare i consumatori a identificare i prodotti animali coerenti con le loro preoccupazioni etiche. Ma molte sono intenzionalmente ingannevoli e tutte sono problematiche. In genere hanno l’effetto di confondere i consumatori, tagliare gli allevatori che davvero si occupano del benessere animale fuori dai mercati importanti e contrastare le riforme necessarie per eliminare gradualmente l’allevamento industrializzato”.
Dall’altro lato, ci sono molti esperti che sostengono come anche requisiti minimi siano sempre meglio di niente. Temple Grandin è una scienziata che si occupa di questi temi e che è nel board di American Humane – uno degli enti certificatori, a detta di molti report quello che richiede i requisiti più deboli per fornire la patente di “umanità”. Ha dichiarato al New York Times, che il loro scopo è proprio quello di “lavorare con gli allevamenti che producono su larga scala, per fare in modo che anche loro rispettino almeno alcuni standard”.
L’American Society for the Prevention of Cruelty to Animals (ASPCA), ha sottolineato che molte certificazioni sul benessere degli animali nel rapporto vietano pratiche come l’uso delle gabbie: “Non esiste una certificazione perfetta, ognuna ha margini di miglioramento e stiamo lavorando per contribuire a rafforzare gli standard, ma le certificazioni che riconosciamo offrono una vita significativamente migliore agli animali vulnerabili e chiarezza ai consumatori, cosa che l’industria da sola attualmente non fa. Criticare un piccolo ma crescente gruppo di agricoltori, aziende e consumatori i cui sforzi e investimenti stanno avendo un impatto positivo su centinaia di milioni di animali, quando miliardi di animali stanno ancora soffrendo in condizioni veramente infernali, vuol dire cadere in quella trappola di cui lo stesso rapporto di Farm Forward parla: il meglio è nemico del bene”.
Dall’altro lato Amanda Hitt, direttrice del programma governativo Food Integrity Campaign, dichiara a CivilEats tutta la sua diffidenza: “Basta aver osservato il movimento per il biologico, o il movimento ambientalista, per sapere che è esattamente così che funziona: dovremmo sapere che la motivazione dell’industria non è la protezione degli animali ma il profitto. I bollini sono pubblicità. Le certificazioni sono pubblicità”. Ma è proprio questa natura pubblicitaria che può diventare un grimaldello.
Maltrattamenti? No: pubblicità ingannevole
I sostenitori della causa animalista puntano molto sul concetto di humanewashing perché è più facile denunciare un’azienda per aver provato a ingannare il consumatore che per aver maltrattato gli animali. Le leggi sui trattamenti inumani ci sono un po’ dappertutto, ovviamente, ma a parte che è molto difficile provarli, devono verificarsi eventi davvero estremi per poter configurare un reato. Tristemente, vale di più un diritto economico dell’uomo (non essere fatto fesso da un’etichetta) che un diritto a non subire crudeltà dell’animale. E però, così stando le cose, conviene approfittarne: le industrie alimentari che fanno humanewashing vanno perseguite per pubblicità ingannevole; un po’ come con Al Capone, che non finì in carcere per associazione a delinquere ma per motivi fiscali.
E da questo lato dell’oceano, com’è la situazione? In Italia, e in Europa, per certi versi siamo più indietro, per certi più avanti. Dipende anche dalla differenza con il sistema americano, basato sulla privatizzazione, la frammentazione degli enti certificatori, l’adesione volontaristica. Qui da noi il sistema è basato sulle leggi: maggiore rigidità e lentezza, ma anche maggiore certezza. Le norme UE per la protezione e il benessere degli animali durante il trasporto sono state approvate nel 2004. Nel 2020 gli eurodeputati hanno istituito una commissione d’inchiesta per indagare sulle presunte violazioni delle norme per il benessere degli animali. Altre norme UE si occupano degli animali allevati durante l’abbattimento e la macellazione e delle condizioni di alcune specie di animali come vitelli, maiali e galline da uova.
Dall’altra parte, in Italia è stato lanciato nel 2018 Classyfarm, un sistema integrato del Ministero della Salute, che si regge sulla figura del veterinario aziendale, allo scopo di monitorare le condizioni degli allevamenti: la priorità è la salute del consumatore e le condizioni sanitarie in generale (il che in tempi di pandemia di origine animale è una necessità ancora più evidente), ma anche il benessere animale è considerato. Classyfarm dovrebbe fungere anche da coordinamento e controllo degli enti privati che rilasciano certificazioni, tramite Accredia, una sorta di certificatore dei certificatori. Abbiamo detto dovrebbe perché di fatto, dopo 2 anni e più “il sistema nel suo complesso si presenta come un edificio vuoto”, come ha dichiarato ad AboutPharma Mario Facchi, presidente della Società italiana veterinari per animali da reddito (Sivar) e veterinario aziendale. La struttura è pronta o quasi, bisogna solo iniziare a renderla operativa, e il Covid non ha aiutato.
Infine, è notizia di queste settimane, a dicembre 2020 il Consiglio europeo ha approvato l’etichetta Ue sul benessere animale. Adesso la palla passa alla Commissione, che dovrà fare una proposta di norma riguardante diversi aspetti: il regime di etichettatura, gli incentivi per i produttori, i criteri di valutazione del benessere, gli animali da considerare, il logo del “bollino”, l’armonizzazione tra le leggi e le certificazioni delle diverse nazioni. Nel frattempo Legambiente e Compassion in World Farming (Ciwf), associazione per il benessere e protezione animali da allevamento, hanno proposto un sistema di etichettatura del latte che tiene conto del benessere delle mucche, e si esprime in una divisione in 6 classi, dal verde del biologico al nero dell’intensivo. Insomma, la strada del benessere animale è lunga e tutta da percorrere; quella dello humanewashing, si spera un po’ meno.
[Foto: Farm Forward]