Grani “antichi”? Ma fatemi il piacere!
Nonostante negli ultimi tempi facciamo tutti a gara nel riempirci la bocca –in ogni senso– di nomi austeri e altisonanti quali “Senatore Cappelli”, “Saragolla”, “Tumminia” o “Perciasecchi Perciasacchi”, la realtà è che noi, dei cosiddetti “grani antichi”, non ci capiamo proprio niente.
Certo, quando entriamo in quelle graziose panetterie tutte nastrini e fiorellini che sembrano esser state catapultate nei nostri lidi direttamente dalla verde Provenza, ci culliamo nell’illusione di avere acquistato del pane 100% Senatore Cappelli, e ce ne usciamo tutti contenti, fieri del nostro acquisto gourmet, con la nobile pagnotta sotto il braccio.
Ma in realtà, del pregiato grano duro oggi tanto di moda, ce ne stiamo portando a casa un misero cinquanta, sessanta per cento.
Quando va bene.
E quella pizza là, quella del pizzaiolo doc, che strombazza in lungo e in largo di usare solo e soltanto grani antichi e certificati?
Balle.
Balle pure quelle. Almeno nella stessa percentuale con cui ha tagliato il pregiato sfarinato con bieche farine, meno nobili ma certamente più facili da lavorare.
Eh sì, perché purtroppo, l’amara realtà è questa. Nonostante oggi se ne faccia un gran sproloquiare, noi di grani antichi, di Senatori vari, ne sappiamo ben poco, e soprattutto, ne mangiamo ancora meno.
Meno, sicuramente, di quanto crediamo.
Ce ne rende partecipi Giuseppe Russo, ricercatore del Consorzio di Ricerca “Gian Pietro Ballatore” che da oltre quindici anni si occupa di grano duro.
Sono parole, quelle di Russo, che rimestano nella mancanza di informazione, nel vuoto normativo, nella mancanza di regolamentazioni che facciano un po’ di chiarezza nel mare magnun dei grani “antichi”; termine che, lo ricordiamo, non sta ad indicare il grano delle pagnotte di Tutankamon e di Nefertiti e nemmeno di Napoleone, ma soltanto le varietà di grano ad alto fusto e bassa resa selezionate nei primi decenni del secolo scorso, e in particolar modo prima degli anni ’40.
“Non esiste al momento un sistema di certificazione capace di garantire il consumatore sulla reale identità e purezza del prodotto“.
Troppo spesso sono presenti, nelle pizzerie o nei panifici, prodotti per i quali viene dichiarato l’utilizzo di sfarinati puri al 100% di “grani antichi”, ma all’occhio dell’esperto non sfugge come molti di questi prodotti siano stati ottenuti da miscele, ricorrendo al taglio degli sfarinati con grani moderni o ricorrendo all’ausilio di miglioratori per rendere l’impasto più soffice e lavorabile.
Dei tagli, quindi. Dei volgarissimi e truffaldini tagli.
Nella pratica comune di pizzaioli e panettieri poco “trasparenti”, in altre parole, i preziosi sfarinati antichi verrebbero mischiati con farine “moderne” che contengono una diversa qualità di glutine, notevolmente più elastico e strutturato rispetto a quello contenuto nei grani antichi, il cui impiego comporta non solo una migliore lavorabilità dell’impasto ma anche il vantaggio di rendere il prodotto finale più morbido e soffice.
Per dirla tutta, un pizza o una pagnotta fatte interamente con grano Tumminia o Perciasecchi –o “in purezza”, come dicono ora quelli che se la tirano– non sarebbe certo così agevole da panificare né tantomeno così gradita al nostro palato.
Ma la fiera delle mezze verità non finisce qui: anche la diceria, molto diffusa, secondo cui i grani antichi presenterebbero minori quantità di glutine non si basa su fondamenti scientifici validi, ribadisce Russo:
“Pure fandonie. I grani antichi e i grani moderni contengono quantità di glutine pressoché paragonabili. Quello che cambia è la qualità del glutine che risulta meno elastico e meno tenace nelle varietà da conservazione“.
Caratteristiche che comunque non rendono questi grani adatti all’alimentazione dei celiaci: per quanto di diversa qualità e di minor “forza”, il glutine, nei grani da conservazione, è comunque presente, e diffondere informazioni sbagliate in merito al suo consumo in caso di intolleranze o allergie può contribuire ad alimentare mode e comportamenti anche rischiosi.
“Il rischio – continua Russo – è di trasformare un’opportunità di sviluppo in una moda passeggera“.
Insomma, una moda, quella dei grani antichi e nostrani, che al momento non pare supportata da un sufficiente livello di chiarezza né di informazione, oltre a essere potenzialmente deleteria per uno dei pilastri della nostra alimentazione, nonchè patrimonio immateriale Unesco, vale a dire la dieta mediterranea (e no, non è una battuta, è realtà).
Non dimentichiamo, inoltre, che uno dei grani “antichi” oggi più popolare, vale a dire l’ormai onnipresente Senatore Cappelli –che è proprio il caso di dirlo, va via come il pane– fu ottenuto nei primi decenni del secolo scorso dal genetista agrario Nazareno Strampelli tramite incroci successivi di semi, nel tentativo di migliorare il grano allora più diffuso, il Rieti, partendo dalla base di una varietà di grano non certo nostrana e autoctona bensì tunisina: la Jeahn Rhetifah.
In conclusione, quindi, ben vengano –o meglio ritornino– i grani antichi, salvaguardati dalle mani di agricoltori lungimiranti che, nei decenni, sono riusciti a custodire e conservare il patrimonio genetico dei semi, ma non disprezziamo i nostri comuni, moderni grani di tutti i giorni: sono loro che ci regalano la morbida biovetta e la fragrante pizza che tanto amiamo: non dimentichiamolo.
[Crediti: Palermomania, Dissapore, Dario Bressanini]