A parole siamo tutti bravi. Tutti diligenti consumatori, attenti e consapevoli, che pongono la massima attenzione a ciò che si mangia.
Con l’occhio sempre fisso su temi di attualità: la percentuale di olio di palma o di grassi idrogenati contenuti in uno snack, lo sfruttamento delle risorse del territorio, le condizioni in cui sono costretti a vivere gli animali da allevamento.
Peccato che poi, nel quotidiano, tralasciamo spesso di compiere i piccoli gesti utili per capire cosa contengono i prodotti che buttiamo alla veloce nel carrello della spesa: leggere le etichette.
L’argomento non è originale né rappresenta una novità: sono decenni ormai che il mantra dell’attenta lettura di quanto riportato in etichetta ci viene ripetuto con ogni mezzo, tanto che a oggi, sarebbe lecito supporre, nessuno di noi porta nella propria dispensa prodotti che non abbiano prima superato un attento esame di quanto riportato in etichetta.
Invece, non è così.
Complice la fretta, tralasciamo di dare anche solo una breve lettura alle etichette, che invece, se osservate attentamente, si rivelano una fonte di informazioni preziosa sul prodotto che finirà nel nostro stomaco, dovendo loro concedere la presunzione di trasparenza e veridicità.
A questo proposito abbiamo quindi selezionato –da una recente pubblicazione di Altroconsumo dal titolo “Leggere le etichette”, di Dario Dongo e Marta Strinati– una lista di preziosi informazioni in merito ad un attento esame delle etichette, che potranno rivelarsi nostre valide alleate verso un consumo attento e consapevole.
Sempre a patto di leggerle, ovvio. Ma, soprattutto, di crederci.
OLIO
Anche per l’olio il nostro patriottismo viene fuori prepotente, e la scritta “italiano” ci ammalia e guida la nostra mano verso l’acquisto di un olio, rispetto a un altro. Rimandi alla verde Liguria così come all’incantata Sicilia, passando per il Chianti, la Puglia e ogni altra regione che istintivamente associamo alla parola “olio”.
Peccato che anche qui le cose non siano proprio come sembrano. La dicitura “olio italiano” non si riferisce al fatto che siano state utilizzate olive italiane, ma indicano soltanto che è stato “prodotto” in Italia.
Per fortuna, almeno per l’olio extravergine e vergine, è obbligatorio indicare la zona di raccolta delle olive e quella dove è stato estratto l’olio.
Se invece troviamo la scritta “miscela di oli originari dell’Unione Europea”, “miscela di oli non originari dell’Unione Europea”, “miscela di oli originari dell’Unione Europea e non originari dell’Unione Europea” allora sappaite che non è nemmeno obbligatorio indicare i singoli Paesi di provenienza delle olive.
Un salto nel vuoto, anzi, nell’olio.
FARINA
La popolarità della farina ha conosciuto negli ultimi anni un incremento fuori dal comune e l’interesse dei consumatori per i prodotti da panificazione è in continuo aumento. Molti di noi discutono, spesso a vanvera, di farine “integrali”, “raffinate”, senatori vari e via dicendo.
Ma quanti saprebbero dire con esattezza qual è la differenza tra una farina 0 e una farina 00?
Bene, in questo caso leggere la confezione sarà di valido aiuto. Per quanto riguarda le farine di grano tenero, infatti, se trovare la scritta 00 significa essere in presenza di una farina più raffinata, con un minor contenuto di sali minerali, vitamine e fibra, mentre la scritta 0 indica una farina meno raffinata e anche con un maggiore quantitativo di glutine.
Le farine 1 e 2 saranno quindi ancor meno raffinate, per poi arrivare alla farina integrale, che deriva dalla macinazone dell’intero chicco, e quindi la meno raffinata di tutte.
Le farine di grano duro prendono invece il nome di “semola”: ricche di fibre, sono più complete e aiutano, tra le altre cose, a regolarizzare l’intestino.
Molto spesso però le etichette possono trarre in inganno, facendoci ritenere “integrale” un prodotto che invece non lo è: i prodotti con vera farina integrale devono riportare, vicino alla parola “farina” o “semola”, anche la voce “integrale”.
Se il termine integrale non compare, allora significa che siamo in presenza di un prodotto fatto non con farina integrale vera e propria, ma di un prodotto fatto con farine raffinate a cui sono state aggiunte semplicemente delle parti di crusca, la parte esterna cioè del chicco.
Certo, anche in questo modo la quantità di fibre sarà assicurata dalla crusca aggiunta, ma saremo comunque in presenza anche di farina raffinata, meno ricca di nutrienti e di minore qualità.
CARNE ITALIANA O “STRANIERA”
Molti di noi, in un impeto patriottico, preferiscono le bistecche di origine esclusivamente italiana, nella ceretezza (o pia illusione?) di garantirsi così un surplus di qualità e genuinità.
Fortunatamente per loro, dal 2000, in seguito ai casi di cosiddetta “mucca pazza”, è stata introdotta la certificazione obbligatoria d’origine degli animali da allevamento. Dal 2015 poi, tale obbligatorietà è stata estesa alla carne suina, ovina, caprina e avicola, escludendo – per motivi a noi misteriosi – solamente la carne di cavallo, quaglia, lepre, conigliio e struzzo.
Inoltre, per quanto riguarda gli animali nati, allevati e macellati in Italia troveremo la confortate dicitura “origine Italia”, mentre negli altri casi troveremo solamente scritto “allevato in Italia” con diverso significato in rapporto ai vari animali.
GALLINE E UOVA
La mano del consumatore sarà sicuramente attirata da confezioni arricchite con paffute gallinelle razzolanti libere e felici nei ridenti pascoli. Niente di più falso: le povere bestie, negli allevamenti intensivi, sono costrette a vivere in pochissimo spazio e devono convivere con altre migliaia di esemplari sotto lo stesso capannone, stipate al limite del possibile.
Gli allevamenti di galline, infatti, assomigliano ancora a delle vere catene di montaggio, nonostante dal 2012 l’Unione Europea abbia imposto condizioni di vita più dignitose per questi animali.
Per quanto riguarda le uova, le confezioni prevedono quattro tipi di etichetta, ognuna corrispondente ad un preciso livello di qualità della vita della gallina.
“In gabbia”: la gallina trascorre la sua vita, come appunto riportato, in gabbia, in 750 centimetri quadrati. Le ovaiole sono stipate in capannoni illuminati da luce artificiale e ventilazione forzata e sono previste 8 ore di buio.
A terra”: no, non vi immaginate la bella gallinella che a terra becchetta tranquilla e beata. Anche i questo caso, le galline vivono in capannoni al chiuso, e in un solo metro quadro potranno trovare spazio fino a nove galline.
“All’aperto”. In questo caso la dicitura non è ingannevole, e le galline trascorrono veramente la loro vita all’aperto, con un massimo di nove galline ogni quattro metri quadrati.
“Biologico”. Le galline che forniscono uova “biologiche” sono in assoluto quelle che conducono la vita migliore. Gli allevamenti che intendono fregiarsi del titolo “biologico” devono rispettare standard precisi e rigorosi, fatti di spazi sia all’aperto che al coperto, e non si potranno tenere più di 6 galline per ogni singolo metro quadro coperto, mentre all’aperto ogni gallina potrà godere di ben quattro metri quadri.
Anche il mangime loro riservato dovrà essere doc, vale a dire solo di tipo biologico e privo di OGM. Inoltre, si possono allevare al massimo 3000 esemplari e la luce artificiale potrà essere presente solo per un massimo di 16 ore al giorno.
In assoluto, le galline più felici. E, forse, le uova più buone.
E le UOVA?
Felicità delle galline a parte, quanto sono fresche le uova che compriamo?
Obbligatoria è la data di deposizione, che si trova stampigliata sulla confezione. Quelle sulla cui confezione troviamo la scritta “fresche” devono essere imballate entro entro 10 giorni dalla deposizione, mentre per quelle “extra fresche” i giorni si riducono a tre.
Oltretutto, il massimo periodo che intercorre tra la deposizione delle uova e la loro vendita non deve superare i 21 giorni.
PESCE
No, qui purtroppo l’etichetta non ci aiuterà a stabilire se il pesce è fresco o no, ma almeno potremo scoprirne la provenienza. Per quello pescato o allevato in mare, infatti, il cartellino dovrà indicare la zona FAO di provenienza. I mari sono stati convenzionalmente suddivisi in macro-aree e ad ogni numero corrisponde una macro area specifica.
Inoltre, se il pesce proviene dalle zone 27 o 37 (Atlantico Nord Orientale o Mediterraneo e Mar Nero), dev’essere indicata anche la sotto-zona o divisione, in termini oltretutto chiari e comprensibili.
CIOCCOLATO, MON AMOUR
Quanti di noi si sono lasciati tentare dalla barretta economica del super, per trovarsi poi ad addentare un tavoletta di marmo, dura e insapore?
Anche nel caso del cioccolato, per fortuna, una attenta lettura delle etichette potrà venirci in aiuto.
Il cioccolato è composto non solo da cacao e zucchero, ma anche da grassi. E tra questi, il più pregiato è senza dubbio il burro di cacao. Se nella nostra barretta è presente solo burro di cacao, allora i cioccolato si potrà definire “puro”, cosa non consentita se saranno invece presenti altri grassi quali olio di palma, burro di karité, di cocum e altri, ma sempre e comunque in misura inferiore al 5%.
Ma per gli amanti del cibo degli dei, sarà un’altra la dicitura più importante da tenere presente, vale a dire quella che indica la percentuale di cacao.
La scritta “finissimo” o “superiore” indica infatti che la percentuale di cacao deve essere almeno del 43% e quella del burro di cacao del 26%, mentre la scritta “ extra” indica che la percentuale di cacao non deve essere minore del 45% e quella del burro di cacao del 28%.
CALORIE, GRASSI, ZUCCHERI E ALTRE COSE BUONE
E qui veniamo al cuore della faccenda: se c’è una sola etichetta, una sola dicitura che non tralasciamo di esaminare col lanternino, è quella relativa alle calorie, ai grassi o agli zuccheri, che spesso è la discriminante che ci fa scegliere un prodotto invece di un altro, nell’illusione che un alimento con minor calorie si ripercuoterà in un sicuro vantaggio per il nostro girovita.
A questo proposito, è chiaro che le diciture “senza calorie”, così come “senza grassi” o “senza zucchero” saranno quelle che mai tralasceranno di catturare la nostra attenzione.
Peccato che quei “senza” non corrispondano in toto a quanto sarebbe lecito immaginarsi, ma a dei precisi standard che definiscono le caratteristiche dei prodotti.
La dicitura “senza calorie” indica infatti che queste ultime non possono superare le 4 kilocalorie ogni 100 grammi (per i solidi) o ogni 100 millilitri (per i liquidi), mentre la dicitura “senza grassi” indica un massimo di 0,5 grammi di grassi per 100 grammi o millilitri, e infine la scritta “senza zuccheri” indica che gli stessi non debbano superare gli 0,5 grammi di zuccheri per 100 grammi o millilitri.
Per non parlare per la regina delle diciture ingannevoli, ormai, in teoria, conosciuta da tutti: “senza zuccheri aggiunti” non sta infatti a indicare un prodotto completamente privo di zucchero, ma che non sono stati aggiunti dolcificanti quali monosaccaridi, disaccaridi o altri per rendere più appetibile il prodotto.
Lo zucchero però c’è, ed è quello naturalmente presente nell’alimento.
OGM
Da molti considerati secondi, in ignominia, solamente al demonizzato olio di palma, ritenuti invece innocui e soprattutto utili da altri, gli OGM non mancano mai di sollevare gli animi e far comunque discutere.
E proprio per questo un attenta lettura delle etichette potrà venirci in aiuto.
In Italia, infatti, gli OGM non si possono coltivare, ma ciò non significa che non potremo incontrare prodotti contenenti i famigerati OGM negli scaffali del super. L’Unione Europea, infatti, ne ha autorizzati ben 58 tipi, tra prodotti agricoli destinati all’uomo e ai mangimi, e che di conseguenza possono essere importati nel nostro Paese.
Sapere se il pane che sta acquistano contiene una parte di materie prime OGM è ovviamente un diritto del consumatore, che troverà infatti la corrispondente indicazione in etichetta, ma non sempre.
Se il componente OGM è presente in misura inferiore allo 0,9% del prodotto totale, indicarlo in etichetta non è obbligatoria, mentre se troviamo la scritta “senza OGM” oppure “OGM free”, potremo star certi (…) di non trovarne alcuna traccia.
Discorso diverso per gli OGM presenti nei mangimi degli animali da allevamento.
Anche in Italia, infatti, è permesso utilizzare mangimi contenenti OGM, regolarmente approvati dalla UE, e le carni e i prodotti derivati dagli animali così nutriti non devono sottostare all’obbligo di indicare tale tipo di alimentazione.
Come dire, se col pane andate sul sicuro, con la fiorentina un po’ meno.
ALLERGENI
Se per quanto riguarda alimenti quali uova o olio la nostra legittima curiosità di conoscere l’origine del prodotto è dettata dal desiderio di compiere scelte consapevoli e salutari, nel caso degli allergeni si tratta, a volte, di una questione di vita o di morte, nel vero senso dell’espressione.
Infatti, circa il 2% della popolazione italiana soffre di allergie alimentari che, in casi estremi, possono portare perfino alla morte, anche se il singolo allergene è presente in dosi infinitesimali o impercettibili.
Per questo motivo dal 2006 in Italia i cibi confezionati devono indicare in etichetta la presenza di allergeni.
Sono ben 14 le sostanze per cui vige questo obbligo, vale a dire glutine, crostacei, uova, pesce, arachidi, soia, latte, frutta a guscio, sedano, senape, semi di sesamo, lupini, molluschi e solfiti (per questi ultimi è stata fissata una soglia di tolleranza di 10 mg per chilo o per litro sul prodotto finale).
Inoltre, dal dicembre 2014, tale obbligo vale anche per i cibi sfusi serviti o venduti in ristoranti, panetterie, pasticcerie, bar, gastronomie, mense e fiere, anche se questa disposizione, prevista dal regolamento europeo 1169/2011, ad oggi è ancora troppo raramente rispettata.
[Crediti | Link: Altroconsumo, Dissapore. Immagine di copertina: Nonsprecare]