Siamo andati avanti per lungo tempo con due certezze, riguardo all’alimentazione dei nostri antenati. La prima: che il grande sviluppo della scatola cranica e del cervello in tempi molto antichi abbia avuto come causa, tra le altre, il passaggio da una dieta frugivora a una dieta a base di carne (sarà per questo che abbiamo iniziato a considerare seriamente ogni “dieta preistorica” per la nostra alimentazione?).
La seconda: che abbiamo iniziato a mangiare amidi in grande quantità solo dopo l’invenzione dell’agricoltura, circa 10.000 anni fa. Insomma, l’evoluzione in Homo sapiens sarebbe merito delle bistecche di mammut; la nascita della civiltà merito (o colpa) della zuppa di farro e del pane. Ora però arriva uno studio a ribaltare in un colpo solo entrambe queste convinzioni: suggerendo che il massiccio consumo di amidacei sia retrodatabile come minimo a 100.000 anni fa, se non a 600.00; e che sia stato proprio questo tipo di alimentazione a far cambiare marcia, e dimensione, al nostro cervello.
Per la verità, qualche dubbio i paleoantropologi e gli evoluzionisti lo coltivavano già da prima: quello di cui ha bisogno il cervello non sono le proteine, ma il glucosio (lo sapevate che il cervello è uno degli organi che consuma più calorie? Non fate jogging, pensate!). Per cui sì, naturalmente a dare la possibilità alla scatola cranica di ingrandirsi sono stati una serie di fattori, la posizione eretta per esempio; e lo sviluppo dell’intelligenza umana è dovuto alle interazioni sociali sempre maggiori, che hanno portato anche alla nascita del linguaggio (sempre secondo una teoria carnivora, e patriarcale, è una conseguenza della necessità di coordinarsi per cacciare insieme animali di grossa taglia). Ma venendo nello specifico al cervello, non si capiva bene come avesse fatto la carne a produrre il salto di qualità.
Lo studio appena pubblicato prende in considerazione i residui di batteri presenti sui denti di vari uomini e primati degli ultimi 100.000 anni. Cosa c’entra, direte voi. E qui viene il bello: è stato scoperto che nella bocca degli Homo, sia sapiens che neanderthalensis, c’era un gran numero di streptococchi; nella bocca e sui denti di gorilla e scimpanzé, i nostri cugini più prossimi, no. Gli streptococchi si nutrono di zuccheri, e il fatto che siano lì da un sacco di tempo può significare solo una cosa: che nella nostra saliva, e in quella dei fratelli neandertaliani, c’era già l’amilasi, un enzima che trasforma gli amidi, catene complesse di carboidrati, in zuccheri semplici. E quindi, che da tempo avevamo sviluppato un adattamento a un’alimentazione ricca di amidi. Da lì a dedurre che sia stato quello a dare la spinta per la crescita del cervello, il passo è breve. Anche perché, se la capacità di digerire i carboidrati si è sviluppata sia in noi che nei Neanderthal, può essere che l’evoluzione sia avvenuta due volte, separatamente; ma può anche essere che sia stata ereditata dagli antenati comuni, e in tal caso risalirebbe a 600.000 anni fa.
Quali erano queste fonti di amido, poi, è tutto da supporre. Sicuramente semi e cereali selvatici, il che spiegherebbe anche come all’agricoltura non ci sia arrivati di colpo, ma dopo millenni di raccolta di piante spontanee. Ma probabilmente, in maggior parte tuberi e rizomi, cioè le parti sotterranee delle piante che ne costituiscono la riserva energetica e perciò sono ricche di zuccheri complessi. I rizomi venivano cotti sul fuoco o nelle ceneri, come dimostra uno studio dell’anno scorso che retrodata a 170.000 anni fa le radici ritrovate carbonizzate in un focolare in Africa. Insomma, quando si parla di carboidrati preistorici, non si intende ancora un pacchero alla Nerano una tagliatella alla bolognese, ma una simil-patata arrosto sì. E ora ripensate un attimo alla vostra dieta paleo.