Leggendo Cibum nostrum– Mito e rovina della dieta mediterranea (Derive e Approdi, 13 euro), di Maurizio Sentieri, si può dire che la dieta mediterranea non ha fatto in tempo a essere riconosciuta come bene immateriale dall’Unesco, nel 2010, che si è smaterializzata, facendosi fantasma inafferrabile. Non per niente è Patrimonio Immateriale dell’Umanità, verrebbe da dire.
Ma a dirla tutta la realtà è ancora più complessa, perché quando l’Unesco ha eletto la dieta mediterranea a oggetto di conservazione aveva riconosciuto quello che ormai era già un ectoplasma, e da decenni, essendosi quasi ovunque sgretolati i presupposti gastronomico-culturali che rendevano, in modi varii ma tra loro riecheggianti, la dieta mediterranea un orizzonte alimentare comune a insediamenti umani anche abbastanza lontani.
Come è nata la dieta mediterranea
La prima parte del libro di Sentieri, per me la più interessante, ripercorre la storia della dieta mediterranea e della sua identificazione da parte del fisiologo statunitense Ancel Keys. Veniamo così a sapere una serie di informazioni interessanti, lasciate cadere in una prosa che tende a diffondersi un po’ troppo spesso in riflessioni contingenti. Comunque accade meno in questa prima parte, dove le informazioni cogenti tendono a prevalere: come quella che ci informa del fatto che la prima pianta a essere coltivata undicimila anni fa sia nell’odierno Irak che in Israele era il fico, tra le più produttive e le meno esigenti. Oppure che a costituire un trait-d’union tra le varie anime di quella che sarebbe stata riconosciuta a posteriori come dieta mediterranea sono “le montagne, ma anche la scarsità di terre coltivabili, la relativa rarità di acque, il clima «sospeso» tra i venti nordici in inverno e l’affacciarsi del deserto africano in estate (oggi parliamo di anticiclone africano)”, circostanze che “rendevano le regioni mediterranee “fragili” e spesso precarie nel raggiungere l’autosufficienza alimentare”.
Ad attirare l’attenzione di Ancel Keys a partire dagli anni Cinquanta era il fatto che in alcune zone del mondo, e il suo osservatorio privilegiato era il Sud Italia, le persone si ammalassero meno di malattie cardiovascolari, e morissero raramente di infarto. Agli occhi di un fisiologo la circostanza non poteva che essere collegata con l’alimentazione.
Quello che Ancel Keys incontrò e studiò a partire dagli anni Cinquanta nel Sud Italia e a cui diete il nome di ‘dieta mediterranea’ era qualcosa di ben più vasto di una dieta e un modo di alimentarsi; in realtà era una cultura”, e non restava altro che osservarla da vicino, confrontandola con altre simili e diverse.
È così che nacque l’idea del celebre Seven Country Studies, uno studio destinato a cambiare la storia della medicina e dell’alimentazione. I sette paesi presi a modello si dividevano in due gruppi: uno – composto da USA, Finlandia e Olanda – rappresentava il campione in cui era presente un alto tasso di morbosità di arteriosclerosi; mentre l’altro – Giappone, Jugoslavia, Grecia e Italia – mostrava una bassa incidenza per la stessa patologia. I gruppi di indagine furono divisi in coorti composte da circa 12.000 persone, che sarebbero state seguite per decenni. Le tre coorti italiane erano a Crevalcore (Bologna), Nicotera (Vibo Valentia), e a Roma presso un gruppo di ferrovieri. I primi risultati apprezzabili emersero dopo dieci anni, ma alcune delle coorti godettero di un’osservazione di durata lunghissima, fino a quarant’anni.
Col senno di poi possiamo immaginare i risultati di quello studio, ma se possiamo immaginarli così facilmente è proprio grazie all’esistenza di quella ricerca, di cui magari potevamo non aver ancora sentito parlare: “La cardiopatia cronica si manteneva bassa in presenza di un’alimentazione povera di grassi animali (grassi saturi) e ricca di grassi insaturi (oli vegetali, in particolare olio di oliva), di zuccheri complessi e fibre (cereali integrali, legumi) e di sostanze antiossidanti (frutta e verdura). Un’evidenza opposta a quella dei consumi alimentari in usa, Olanda, Finlandia, dove grassi saturi, proteine animali e zuccheri semplici, alcool sotto forma di superalcolici erano, in misura differente, parte rilevante delle scelte alimentari”.
La conseguenza è così che un tipo di alimentazione per certi versi frugale, ricco di fibre e grassi vegetali, e che fino a un certo punto era sinonimo perfino di povertà, divenne un modello da inseguire, una dieta alla moda, un salvavita addirittura. E tutto ciò succedeva mentre anche nei luoghi dove quel tipo di alimentazione aveva prosperato (si fa per dire, dato che in certi casi era basato su oggettive ristrettezze) stava ormai venendo superato grazie alle nuove disponibilità alimentari, corollario inevitabile del boom economico occidentale.
Quel che resta della dieta mediterranea
Per chi fosse curioso di sapere come l’Unesco ha stabilito i punti di osservatorio in cui trovare l’ineffabile dieta ancora al giorno d’oggi, ebbene la risposta è piuttosto precisa, l’organizzazione ha infatti individuato sette comunità emblematiche lungo le coste del Mare Nostrum, e sono Pollica nel Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Monti Alburni, Koroni in Grecia, Soria in Spagna e Chefchaouen in Marocco, alle quali si sono unite nel 2013 il villaggio di Agros a Cipro e le isole Brac e Hvar in Croazia. In questi spazi residuali, spesso inseriti all’interno di parchi protetti, sarebbe ancora viva un’alimentazione genuinamente mediterranea, che però non trova puntuali corrispondenze appena pochi chilometri più in là, dove il commercio globale e standardizzato impone più alti consumi di carni e superalcolici (solo per citare due esempi, in realtà dove c’è un supermercato l’alimentazione popolare tende inevitabilmente ad allontanarsi da un modello ideale e per sua natura residuale).
Il volume procede poi con osservazioni che a volte ho trovato sfilacciate o anche un po’ pretestuose, come il capitolo dedicato a Chef Rubio e al suo approccio schiettamente genuino e ruspante (non dico che non lo sia, mi chiedo però se osservazioni come queste fossero in fondo indispensabili nell’economia di questo volume), per poi concludersi con una serie di ricette immateriali, preparati messi lì come esatti ma imprendibili simulacri di quello che era la dieta mediterranea. Si va dai testaroli lunigianesi, al cacciucco, al pesto, alla fantomatica minestra abruzzese delle Virtù, composta di oltre quaranta essenze e di cui (e non è l’unico caso) non viene in effetti fornita la ricetta, rappresentando così l’immaterialità di una dieta ormai perduta.