L’Italia non si definirebbe proprio un paese all’avanguardia per quanto riguarda la sperimentazione sulla carne coltivata in laboratorio: tra la fiera opposizione del Governo, che l’anno scorso ha raggiunto il buffo record di vietare con un disegno di legge una cosa che ancora non esiste, e le perplessità più volte ribadite di un attore pesante come Slow Food, sembriamo anni luce distanti da posti come Singapore dove la lab grown meat è addirittura già in commercio, ma anche semplicemente da paesi come Israele o l’Olanda dove le sperimentazioni vanno avanti da anni.
Eppure proprio in Italia, all’Università di Torino, è partito un progetto che sta raccogliendo finanziamenti con il crowdfunding, e che promette di raggiungere ottimi risultati in tempi brevi e con costi – ambientali ed economici – minori di quelli che hanno caratterizzato (e ostacolato) lo sviluppo delle ricerche finora. Per capirci qualcosa abbiamo parlato direttamente con alcuni degli esponenti di CultMeat: Alessandro Bertero, docente e ricercatore al Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute di UniTo e leader scientifico del progetto, Sveva Bottini, ricercatrice dell’Università di Torino e del team di Cult Meat, e Lù Casini, responsabile del progetto di crowdfunding.
Come funziona il crowfunding di CultMeat
Partiamo dai fatti organizzativi: quando è stato lanciato il crowdfunding? A quanto siete arrivati? Se la quota viene superata come verrà utilizzato il surplus?
Il crowfunding è ufficialmente partito il 24 settembre, seguito da un lancio ufficiale durante la notte dei ricercatori e delle ricercatrici svoltosi nei giardini reali di Torino. Attualmente abbiamo superato i 17mila euro! È stata una vera e propria scommessa perché Funds TOgether, l’inziativa di UniTO con cui abbiamo lanciato il crowfunding, è della tipologia “lascia o raddoppia”: se si arriva al budget settato (che per noi era 10mila euro) l’Università raddoppia la somma, altrimenti tutti i soldi tornano indietro ai donatori. Abbiamo quindi già ampiamente superato la quota iniziale, grazie alla quale riusciremo ad ottenere le linee cellulari animali che ci servono per la “prova di concetto” finale del progetto, ma adesso è importantissimo non fermarsi qui! Se arriveremo a 30.000 euro, infatti, potremo acquistare un piccolo coltivatore da 1 Litro che ci permetterà di allargare la prova di concetto e dimostrare ancora più fortemente la scalabilità del processo.
Leggo che all’MBC di Torino i ricercatori stanno già da tempo lavorando sulla carne coltivata. Da quanto tempo? In che termini?
Il progetto è nato nel 2021, da un’idea di Alessandro Bertero, con una borsa di dottorato PON ricerca e innovazione “green” dedicata al tema, la cui vincitrice è stata Sveva Bottini. È iniziata così la ricerca che è stata poi ulteriormente supportata dalla vincita di fondi PRIN PNRR 2022. Lavoriamo quindi a tempo pieno al progetto ormai da tre anni.
Scendendo nel tecnico: in cosa consiste specificamente il progetto? Quali sono le peculiarità rispetto ad altre ricerche già avviate, o alle poche produzioni commerciali che ci sono?
La nostra tecnologia è diversa da qualsiasi altra presente in questo momento nel settore perché permette l’eliminazione dal processo produttivo dei cosiddetti fattori di crescita, che contribuiscono da soli a 2/3 della spesa di produzione per la carne coltivata.
Aspettate un attimo, che cosa significa fattori di crescita?
In breve, le cellule necessitano di segnali (ormoni, fattori di crescita, citochine: nomi diverse per classi di proteine che hanno la medesima ultima funzione), che ne dettano la proliferazione e/o il differenziamento. Storicamente si è usato il siero animale, spesso quello fetale bovino, in quanto ricca sorgente di questi segnali; questo è però troppo costoso, troppo scarso, ed eticamente incompatibile con la coltivazione di carne per ridurre la sofferenza animale. Pertanto, si è passati a produrre biotecnologicamente questi fattori (per esempio l’insulina), ma i costi restano proibitivi (per alcuni fino a 5 M di dollari per grammo). La nostra metodica basata su tecnolgie di evoluzione accelerata permette di selezionare cellule che non richiedono tali fattori per crescere e possono essere indotte a differenziare sempre senza l’uso di fattori di crescita, bensì uno stimolo fisico/chimico dal costo irrisorio.
Ah bene! E come fate? C’entra per caso l’editing genetico, le biotecnologie di ultima generazione? (come quelle che hanno portato alla prima sperimentazione in campo in Italia di un riso geneticamente modificato, ma non OGM)
Si, usiamo le cosiddette “NGT”, nuove tecnologie per l’editing genetico, per attivare i fattori nucleari necessari bypassando la segnalazione cellulare normalmente attivata dai fattori di crescita; si tratta di metodi diversi dai convenzionali OGM, e che in Italia sono stati descritti come “tecniche di evoluzione accelerata” in quanto permettono di isolare rapidamente organismi/cellule con caratteristiche che altrimenti richiederebbero anni di selezione iterativa con i metodi tradizionali di selezione.
Arrivare a una carne coltivata sostenibile e scalabile, in pratica
Quali potrebbero essere le tappe successive? In che tempi avviare la sperimentazione?
Basandosi su queste tecnologie di evoluzione assistita, siamo riusciti ad avere un flow di produzione che si assesta intorno ai 7 giorni per l’ottenimento dei muscoli, generando un prodotto finale omogeneo e controllato. Il nostro obiettivo a breve/medio termine è dimostrare che la nostra tecnologia può permettere la coltivazione di carne in maniera sostenibile e scalabile dal punto di vista economico, così da contribuire a colmare la crescente richiesta di proteine animali e contestualmente diminure le pressioni negative sull’ambiente.
Il punto finale è arrivare a una produzione o le finalità sono solo di ricerca?
La ricerca universitaria ha l’obiettivo di beneficiare tutti, per cui saremmo lieti di poter mettere a disposizione questa metodica a tutte le ditte attive nel settore per permetter loro di raggiungere i loro obiettivi produttivi. Gli investimenti necessari ad arrivare alla produzione sono fuori dalla portata (e dallo scopo) dell’Università, ma speriamo che anche in Italia si possano sviluppare realtà per valorizzare la nostra ricerca e saremo certamente in prima fila per permettere questo obiettivo a lungo termine.
La sperimentazione è fatta su cellule suine: per il momento quindi vi concentrate sul maiale?
Ci sono vari motivi scientifici e pratici per cui partire dal maiale. In primis le cellule staminali del maiale si comportano in maniera più simile a quelle umane rispetto a quelle, per esempio, di bovino; in secundis, c’è molta più conoscenza su come implementare tecnologie di evoluzione assistita (editing genetico di precisione) in questa specie; in ultimo ambiamo collaborare con realtà produttive che hanno già investito in prodotti coltivati di derivazione suina, per facilitare l’ingresso sul mercato.
E che tipologie di muscoli o altro si punta a riprodurre?
Ci sono quattro tipologie di prodotti su cui poter lavorare, dal più “semplice” a quello che richiederà più ricerca: (1) prodotti macinati, per esempio salsiccie, in cui la carne coltivata (muscolo e/o grasso) è “mescolata” con quella tradizionale, onde ridurre il complessivo impatto ambientale pur inserendosi più velocemente in una filiera che ha spesso difficoltà di approvvigionamento e margini di guadagno relativamente bassi, e che quindi potrebbe beneficiare anche in questo senso; (2) prodotti macinati ibridi di grasso coltivato con proteine a base di piante, che possono anche rivolgersi a consumatori vegetariani/vegani nonché a carnivori/flexitariani che desiderano un prodotto con gusto più vicino a quello dei prodotti da macellazione rispetto a quanto ora disponibile nel repertorio 100% a base di piante; (3) prodotti macinati con sia graso che muscolo coltivato, che potrebbero rivolgersi a chi vuole un prodotto del tutto indistinguibile a quello tradizionale nonché a chi, per motivi di salute (allergie, diabete, …), non può consumare certi prodotti proteici a base di piante; (4) prodotti strutturati, per esempio una braciola, che per ora restano obiettivo a lungo termine scientificamente e da valutare per quanto riguarda costi/benefici rispetto a quello tradizionale.
Se non vado errato non siete il primo progetto italiano, da qualche anno c’era una startup pubblico-privata a Trento, Bruno Cell.
La startup Bruno Cell ha sede legale a Trento e laboratori a Trento e Roma. Abbiamo ottimi rapporti di collaborazione scientifica con questa realtà, che è difatti sponsor oro del progetto (cioè ha donato tramite il crowdfunding). Ci teniamo a chiarire che questa è una donazione, non un investimento, e che non abbiamo conflitti di interessi di tipo finanziario con la Bruno Cell.
Carne coltivata tra costi, benefici, ostruzionismo e realismo
Passiamo alla questione generale: ci siamo occupati in più di una occasione di carne coltivata, ogni tanto faccio un recap sullo stato dell’arte perché chiaramente è un settore in cui le innovazioni tecnologiche cambiano lo scenario ogni sei mesi. I vantaggi sono noti, ma sui punti deboli che progressi ci sono stati? Mi riferisco ai costi economici ancora elevati per produrre una bistecca, e ai costi ambientali di ipotetiche fabbriche necessarie per la produzione commerciale.
Tra i punti deboli della carne coltivata sono noti gli alti costi di produzione che dipendono strettamente dalla dimensione del coltivatore e dai terreni di coltura per l’espansione iniziale delle cellule staminali e il differenziamento successivo. La fattibilità economica della carne coltivata dipenderà quindi in gran parte dal suo costo di fabbricazione. Ad agosto del 2024 è stato pubblicato uno studio (Pasitka et al,) che analizza un nuovo metodo per produrre prodotti a base di pollo coltivato in un terreno di coltura privo di derivati animali. Lo studio ha dimostrato come nel breve termine la produzione di prodotti a base di pollo coltivato potrebbe raggiungere i $6 alla libbra, prezzo vicino a quello del pollo biologico. Dal punto di vista ambientale, la carne coltivata ha il potenziale di avere un impatto ambientale 3 volte inferiore rispetto agli allevamenti intensivi per quanto riguarda la maggior parte degli indicatori ambientali, più specificatamente l’uso del suolo agricolo e dell’acqua, l’inquinamento atmosferico e le emissioni di azoto. Sicuramente la produzione di carne coltivata, come anche sottolineato da studi di LCA (life cycle assessment, una metodologia che valuta l’impronta ambientale di un prodotto/servizio lungo il suo intero ciclo di vita) come quelli portati avanti da Sinke et al del 2023, è un processo ad alta intensità energetica e che utilizza acqua sotterranea e superficiale e non piovana. Quindi il mix energetico e l’utilizzo di acqua utilizzati per la produzione in una ipotetica catena di approvvigionamento industriale sono punti importanti da considerare. Se si utilizzano energie rinnovabili, l’impatto ambientale della carne coltivata può essere basso e paragonabile al pollo bio. Perciò date come assunzioni l’uso di energia rinnovabile e un efficiente riciclo dell’acqua, la carne coltivata porterebbe fino al 90% di riduzione di molteplici parametri legati alla sostenibilità nel caso del bovino ma anche del suino; il beneficio è meno chiaro per il pollo, motivo per cui non ci stiamo focalizzando su tale specie, anche se comunque c’è da tenere in considerazione che non si può non considerare l’impatto etico che ridurrebbe fortemente la sofferenza animale, a prescindere dalla specie di riferimento.
E per quanto riguarda gli ostacoli non tecnici? Intendo le perplessità dei consumatori finali (e qui il crowdfunding è una buona notizia in sé perché dimostra un interesse addirittura attivo) e le lentezze politico burocratiche nei confronti di un novel food?
Non vogliamo partecipare a polemiche politiche: abbiamo descritto nei nostri articoli nella letteratura scientifica la nostra posizione critica sulla legge che proibirebbe la carne coltivata, dal punto di vista scientifico/ontologico e non politico, ma teniamo conto anche dell’autocritica che va fatta nel settore, che dovrebbe lavorare anche su autoregolamentazione e comunicazione sul tema. Sul fronte consumatori, i sondaggi svolti dal gruppo FEAT (Future of Eating) con cui collaboriamo confermano che c’è una grande frazione di consumatori interessati. Chiaramente è responsabilità della stampa promuovere una comunicazione che informa e non divide, mettendo in connessione gli esperti al pubblico così che si possano formare opinioni prive di pregiudizi.
Alla luce della situazione attuale, e del futuro che si può prevedere, quanto è realistico che nel 2034 delle persone normali si possano sedere a una tavola imbandita con pietanze a base di carne coltivata? E secondo voi nel quadro globale di un consumo di proteine che sarà sempre più sfaccettato (carne industriale, carne da piccoli allevatori, plant based meat, insetti, altri prodotti animali, proteine vegetali tradizionali…) che peso specifico avrà la Lab grown meat? Qual è, brutalmente, la fetta di mercato cui si può aspirare?
Proprio recentemente è stato pubblicato un report dal Good Food Institute (GFI) Europe/SYSTEMIQ che dimostra come le possibilità sono realistiche ma questo richiederebbe un forte supporto da parte dei governi nazionali e sopranazionali nel campo, analogo a quanto fatto per tecnologie con simile potenziale trasformativo quali le energie rinnovabili. In particolare, emerge la possibilità che il mercato globale della carne coltivata possa raggiungere fino ai 170-510 miliardi di euro entro il 2050, ponendo l’assunzione del superamento degli ostacoli normativi e politici, e la parità dei costi e gusto/texture alla carne tradizionale entro il 2035-40.