Qualche settimana fa su Instagram mi è saltata agli occhi una story di Lorenzo Biagiarelli, autore fra le altre cose del libro Ho Mangiato Troppa Carne. L’ex chef e divulgatore vegano sui social chiedeva: “Mi spiegate che cos’è l’ostroveganismo? Ne ho sentito parlare e vorrei saperne di più”. Al che io, vegana da più di dieci anni, mi sono fatta la stessa identica domanda. Parliamo di vegani discendenti dagli ostrogoti? Vegani ostracisti contro altri vegani? Oppure ostracizzati dai vegani ostrogoti di cui sopra?
Niente di tutto questo. L’ostroveganismo è la dieta vegana che include i molluschi bivalvi, ovvero i frutti di mare. Sembra un controsenso, e per molti (me compresa) lo è, ma in teoria c’è una spiegazione razionale. Ovvero, che i bivalvi come cozze, vongole e ostriche (da cui appunto il prefisso) non posseggano un sistema nervoso centrale, e dunque non siano in grado di provare dolore.
Ma è davvero così? E soprattutto, il veganismo significa soltanto opporsi alla crudeltà? Se basta l’assenza di un cervello a permettere il consumo “vegano” dei bivalvi, allora dobbiamo metterli sullo stesso piano delle piante? Ci sono contraddizioni in termini di sostenibilità e impatto ambientale? Cerco di rispondere a queste domande per capire se davvero l’ostroveganismo valga la pena. Quanto a Biagiarelli, Lorenzo lascia perdere. Ma sono sicura che ci sei già arrivato da solo.
Cos’è l’ostroveganismo
Secondo lo Urban Dictionary, il dizionario online che segnala i nuovi termini compresi slang derivati da fenomeni social e culturali, la parola ostrovegan risale al 28 dicembre 2017. A cercare sul web, fra siti più e meno legittimi, subreddit e blog, ci sono un paio di risultati significativi precedenti a quella data. Un articolo di Slate del 2010 titolato Consider the Oyster (calco dal bellissimo e illuminante saggio di David Foster Wallace Consider the Lobster). E un blog del 2020 (che si autocita da un post precedente del 2013) dal titolo The Ethical Case for Eating Oysters and Mussels. In questi pezzi vengono descritti e dimostrati i punti a favore della dieta ostrovegana. Viene spiegato il perché sia etico mangiare molluschi, come funziona il loro organismo e sistema nervoso, i pro di un’alimentazione a supplemento molluschi. Ci torniamo dopo.
Ma prima concentriamoci sulla definizione dell’Urban Dictionary. In inglese recita: “A person who is otherwise vegan, but is ok to with consuming some bivalves (oysters, muscles, clams) under certain conditions”. Analizziamola un attimo questa frase. Una persona altrimenti vegana (che lo sarebbe in caso contrario) ma che consuma alcuni molluschi in talune condizioni. Intanto troviamo due classici della dissonanza cognitiva: altrimenti, avverbio disgiuntivo + ma, avverbio avversativo. “Io, che altrimenti amo gli animali, tuttavia/ma/però/eppure li mangio”. Già qui capiamo che vegano e consumatore di bivalvi difficilmente possono stare nella stessa frase.
Etichette a parte: quali sarebbero queste condizioni? Bivalvi felici? Bivalvi allevati a terra in regime di libertà? Allevamenti biologici di bivalvi? Bivalvi in accanimento terapeutico per cui è molto più umano staccare la spina? Informazioni non pervenute, non dichiarate, né specificate. Il focus è tutto sull’assenza di dolore, questione spinosissima perché detta così metterebbe in discussione pure le piante. Tanto basta, pare, per giustificare un bella impepata di cozze.
Pro e contro
Quali sono i pro e contro della dieta ostrovegana secondo chi la pratica? La prima, evidente conquista è la vitamina B12. Questo supplemento è l’unico (e sottolineo unico) di cui i vegani abbiano effettivo bisogno. La vitamina B12 è essenziale a metabolismo di amminoacidi e acidi nucleici (e dunque alla sintesi di DNA) e produzione di globuli rossi da parte del midollo osseo. La sua carenza può avere conseguenze neurologiche e cardiovascolari anche gravi, nonché rischio di sviluppo di malattie croniche. Il problema è che la B12 si trova soltanto negli alimenti di origine animale. E in dosi particolarmente elevate guarda caso proprio nei molluschi. Riusciranno gli spaghetti alle vongole a liberarci dalla schiavitù della tavoletta da sciogliere sotto la lingua?
Il secondo pro è, di nuovo, la presunta assenza di dolore nei frutti di mare. Del resto, se si chiamano frutti vorrà dire che si raccolgono come le mele. Avete mai sentito una mela lamentarsi? Nei contro, che pure gli ostrovegani ammettono, ci sono due punti: possibilità di contaminazioni e considerazioni etiche e ambientali. Sul primo, beh che dire: a nessuno piace l’intossicazione da molluschi. Chi ce l’ha avuta non se la dimentica e, chessò, le cozze non può più neanche sentirle nominare. Su etica e impatto ambientale dico: avete ragione. Però non basta una frase buttata lì. Bisogna scendere a patti sul prezzo che ogni ostrovegano è disposto a “pagare” in termini di sostenibilità ambientale e sensibilità individuale rispetto al consumo di animali. Perché noi, a differenza dei molluschi, un cervello ce lo abbiamo.
L’impatto ambientale degli allevamenti di bivalvi
Una cosa che mi ha davvero sorpresa nel fare questa ricerca sull’ostroveganismo è l’impatto positivo (in termini di modificazione dell’ecosistema ed emissioni) derivato dall’acquacoltura di molluschi. Minore, addirittura, di certi sistemi di agricoltura convenzionale. Questi animali non hanno bisogno di antibiotici o pesticidi, tanto per dirne una. Sono degli attivi sequestratori di anidride carbonica che, secondo alcuni, possono aiutare a contrastare il cambiamento climatico.
Soprattutto, i bivalvi combattono l’eutrofizzazione, fenomeno inquinante che si verifica quando nelle acque si concentrano troppi nutrienti. Succede con l’accumulo di micro alghe ad esempio, che proliferando rischiano di bloccare il passaggio di luce e causare la morte di piante e animali sequestrando l’ossigeno. Basta piazzare dei molluschi per risolvere il problema: grazie al loro sistema di filtraggio, sono in grado di liberare le acque da questo indesiderato “tappo”.
Quindi dal punto di vista della sostenibilità tutto benissimo. Però: si parla tanto di acquacoltura in sé ma non delle sue conseguenze. Una su tutti, la dispersione di materiali (reti, plastica, residui) in mare. E le possibili implicazioni per pesci e mammiferi marini. Inoltre, a questi siti di acquacoltura ci si dovrà pur arrivare in qualche modo, e giù di carburante che francamente si poteva risparmiare. Questo per dire che sì, va anche bene mangiare i molluschi. Ma sarebbe ideale per onnivori che decidono di modificare i propri consumi rinunciando agli allevamenti intensivi di pesce (o carne) piuttosto che per vegani creativi. Già dobbiamo venire a patti con l’impatto (ambientale, economico, sociale) dell’agricoltura: ci manca solo aggiungervi quello marino.
Bivalvi, cervello e dolore
Torno al focus della questione: secondo l’ostroveganismo i bivalvi non possono provare dolore. Il sistema nervoso di questi animali sarebbe troppo primitivo: non possiedono un cervello ma tre paia di gangli (gruppi di cellule nervose) che controllano muscoli e organi sensoriali. La pratica dunque, pur mettendo sul piatto esseri viventi, sarebbe cruelty-free. Libera anche dal peso sulla coscienza, evidentemente. Del resto non sarebbe neanche la prima volta. Esistono tante sfumature del veganismo. Tipo i pescetariani che si identificano come “vegani che mangiano il pesce” (li vedete i miei bulbi oculari che raggiungono la stratosfera?). Senza attaccarsi alle etichette, i problemi sono altri.
Innanzitutto, è davvero così? Il punto è che non ci sono abbastanza studi in merito. Anzi, quelli che abbiamo sostengono il contrario: ovvero che tutti gli invertebrati hanno la capacità di rispondere a stimoli avversi o nocivi. Il fatto che la risposta non sia udibile o visibile perché i molluschi non hanno motilità, non basta a decretarne l’assenza. Secondo punto: che cos’è il dolore? Dolore come risposta neuronale non è essere necessariamente uguale per tutti. Sarebbe anche stupido paragonare il modo di provare dolore umano a quello di specie molto diverse da noi. Che diamine, non siamo neanche impietositi dal dolore di un pollo nella morte (ma l’importante è che viva felice), come potremmo essere sensibili a quello di una cozza?
Infine: davvero siamo arrivati a calcolare quanto di cervello e dolore ci deve essere in una specie per poter dire, abbiamo l’ok, possiamo mangiarla? Lo capirei, ripeto, dal punto di vista di un onnivoro. Ma di un sedicente vegano no, mi dispiace. C’è una cosa che si chiama empatia, e un’altra che si chiama coerenza. Se fossero pezzi del puzzle, sono desolata, ma nessuna delle due potrebbe mai incastrarsi nel disegno di questa tesi.
Piante e bivalvi sono la stessa cosa?
Chiudo con una piccola riflessione sulle implicazioni che l’ostroveganismo potrebbe portare rispetto al consumo di vegetali. A mettere sullo stesso piano bivalvi e piante (entrambi organismi viventi ma non senzienti) si prende una deriva pericolosa. Quante volte da vegani ci si è sentiti chiedere in maniera canzonatoria e provocatoria: “Eh ma allora le verdure? Non sono esseri viventi anche loro?”. Come dire, lo vedete che siete incoerenti pure voi? Il cui sottotesto, ovviamente, è: non rompeteci le scatole sulla carne.
La risposta è no, non sono la stessa cosa. Le piante non hanno un sistema nervoso, non si muovono, non respirano, non hanno percezione. Fanno parte del mondo vegetale, costituiscono interi habitat naturali, sono necessarie alla produzione di ossigeno e alla dieta, di tutti, non solo dei vegani. I molluschi fanno parte del regno animale, sono organismi viventi antichi e primitivi, sono molto utili all’ambiente ma non necessari per l’alimentazione. Sono buonissimi per chi li apprezza, ma il loro consumo arriva con un costo: quello di ucciderli, semplicemente. Se c’è chi pur di mangiarli arriva ad affibbiarsi etichette ridicole, beh può anche farne a meno. Cari ostrovegani, c’è una sola cosa che vi consiglio di cambiare: il vostro suffisso.