Vi piacerebbe sapere se il cibo che state comprando viene prodotto in modo sicuro? Vorreste capire se la carne che mangiate proviene da animali allevati in condizioni di salute? Scegliereste una bistecca al posto di un’altra perché ha un bollino che attesta il rispetto del benessere animale della bestia da cui ha origine?
Probabilmente risponderete sì a tutte queste domande, e non c’è da stupirsi.
La crisi climatica, la convergenza di movimenti ambientalisti e animalisti, le legittime paure sulla salubrità delle carni da animali allevati in modo intensivo, il Covid stesso e poi la constatazione secondo cui una buona fetta delle emissioni di gas serra derivi proprio da loro, gli allevamenti animali, ha portato una nuova sensibilità nei consumatori, alla ricerca di informazioni e rassicurazioni sui prodotti che mangiano.
Uno standard misurabile
È in questo solco che deve inserirsi il lavoro sul benessere animale che molti paesi, Italia compresa, stanno portando avanti. L’entry level di questo processo è la definizione di uno standard misurabile di “benessere animale” garantito dall’allevatore e conseguentemente la nascita di un’etichetta a carattere nazionale che ne certifichi il raggiungimento. Etichetta voluta dai produttori stessi perché permetterebbe loro di accedere non solo a una fetta di mercato sensibile al tema, ma anche ai fondi previsti a livello nazionale ed europeo per la transizione ecologica: Green Deal, strategia Farm to Fork, PNRR, e infine PAC.
Poco prima di Agosto ha cominciato a circolare lo schema di un decreto ministeriale che vede congiunti Ministero dell’Agricoltura e Salute per la creazione di una disciplina che regoli il “Sistema di qualità nazionale per il benessere animale”, una garanzia che permetta agli allevatori di iscriversi, dichiarando di rientrare in certi parametri, ricevere un controllo da parte di un ente terzo abilitato e, passato il controllo, apporre un bollino sul proprio packaging o sulle comunicazioni esterne dell’azienda.
Sembra semplice, ma semplice non è. Prima di tutto perché si tratta di un lavoro in corso d’opera, presentato come art.224 bis della Legge 17 luglio all’interno del Decreto Rilancio del 2020 e che molto presto potrebbe andare al voto in Conferenza Stato-Regioni. Nella bozza circolante con i conseguenti allegati, che ad oggi interessa solo gli allevamenti di suini (ma le altre specie arriveranno a breve), una coalizione di associazioni ambientaliste, animaliste e di consumatori – Animal Law Italia, CIWF Italia Onlus, Essere Animali, Greenpeace, LAV, Legambiente, The Good Lobby- ha riconosciuto una propria proposta già depositata ma amputata di alcuni passaggi necessari.
Facendo un passo indietro, la certificazione ha come presupposto la creazione da parte del Ministero dell’Agricoltura e della Salute di un database per il monitoraggio del benessere animale e l’utilizzo degli antibiotici. Si chiama Classyfarm ed è un contenitore che serve per raccogliere dati sugli allevamenti italiani e che ha spianato la strada per la nascita della certificazione contenuta nel decreto. La portata del decreto non è banale, perché metterebbe insieme tutte le etichette più specifiche e circolanti a livello nazionale, che confluirebbero in un’unica certificazione ministeriale con un particolare appeal per il mercato.
Avete presente le uova?
Stando alla bozza inoltre “l’adesione al SQNBA costituisce titolo, per gli Operatori interessati, per l’accesso in via prioritaria ai pertinenti contributi comunitari e nazionali previsti dalla Politica Agricola Comune e dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)” dunque chi si fa certificare ha accesso privilegiato a fondi cospicui. Più nello specifico, all’interno del decreto sono indicati due possibili livelli di certificazione per gli allevatori di suini: una per gli allevamenti all’aperto e una per gli allevamenti al chiuso. Avete presente le uova? 4 numeri a cui corrisponde un diverso livello di allevamento per ciascun numero? Siamo su quella linea, solo che in quel caso i livelli sono 4, mentre in questo sono, almeno per ora, 2. E ora cerchiamo di capire perché, secondo le associazioni.
Prima però un passo indietro sul tema del benessere animale, una cui definizione è inserita nel decreto stesso: si tratta di un “sistema integrato a cui concorrono il sistema di allevamento, l’alimentazione, la salute degli animali, il controllo della biosicurezza in allevamento, il monitoraggio dell’uso del farmaco veterinario, il controllo e la gestione delle emissioni nell’ambiente”; ma ad oggi una definizione generalmente riconosciuta già esiste, e si articola su cinque libertà: 1) libertà dalla fame, dalla sete e dalla cattiva nutrizione garantendo all’animale l’accesso ad acqua fresca e ad una dieta che lo mantenga in piena salute, 2) libertà: di avere un ambiente fisico adeguato dando all’animale un ambiente che includa riparo e una comoda area di riposo, 3) libertà: dal dolore, dalle ferite, dalle malattie prevenendole o diagnosticandole/trattandole rapidamente, 4) libertà: di manifestare le proprie caratteristiche comportamentali specie-specifiche fornendo all’animale spazio sufficiente, strutture adeguate e la compagnia di animali della propria specie 5) libertà: dalla paura e dal disagio assicurando all’animale condizioni e cura che non comportino sofferenza psicologica. Una visione sistemica dunque, che comprende sia il benessere fisico che psichico dell’animale.
Poco più di un metro quadro per un suino di quasi 200 chili
Il decreto muove da queste considerazioni per rendere più misurabile e riconoscibile il grado di benessere animale degli allevamenti: ma è sulla via giusta? Uno dei passaggi che le associazioni sottolineano più criticamente riguarda i livelli per specie, che nell’attuale bozza sono due. Il primo livello comprende la possibilità di accedere alla certificazione per chi allevi suini al coperto con uno spazio designato per la stabulazione dell’animale davvero esiguo: ad esempio, un animale tra gli 86 e 110 kg di peso potrà vivere in 0,84 mq, un suino compreso tra i 141 e i 170 kg potrà vivere in uno spazio di 1,1 mq, un suino dai 170 kg in su, potrà vivere in uno spazio di 1,23 mq. Stiamo quindi dicendo che un allevatore con maiali di quasi 200 kili a cui tocca poco più di 1 mq ciascuno, potrà concorrere per la certificazione ministeriale al benessere animale.
Per assurdo le cose non migliorano con il secondo parametro, che propone obiettivi ben più ambiziosi ma di fatto inverosimili e riguarda gli animali allevati all’esterno, con una “superficie minima di stabulazione all’aperto per animali oltre i 50 kg pari almeno a 250 m2/capo”, una dimensione di 200 volte superiore a quelle dei parametri di base. “Questo vuol dire che tutti si certificheranno sul livello più basso. E si finirà per svantaggiare gli allevatori più virtuosi, che ci sono già, che investono e allevano in spazi più ampi”, sottolineano da CIWF, in prima fila sul tema del benessere animale, che si sta adoperando per far emergere le storture presenti nella bozza di decreto. Il secondo livello di produzione rappresenta invece una quota tanto bassa da non raggiungere mai gli scaffali del supermercato, generando una situazione paradossale: il 99,9% degli allevamenti italiani che vorrà accedere all’etichettatura di base e il restante, praticamente lo 0%, al livello più alto.
“Lo spazio è fondamentale per il benessere animale. Anche se vorremmo gli animali in spazi molto più ampi, già passare da 1,10 mq a 1,30 mq per suino fino a 170 kg è un miglioramento. Ha un costo eppure ci sono allevatori che già lo fanno.” sottolineano da CIWF. Inoltre questo sistema non riesce a premiare l’iniziativa del singolo allevatore, che una volta ottenuta una certificazione per il suo allevamento, non sarà incentivato a migliorare, dato che il successivo riconoscimento è decisamente inarrivabile. “Lasciare questo vuoto ha due funzioni: la prima è dire che siamo tutti uguali e che gli allevatori virtuosi nella realtà non esistono, e la seconda è quella di disincentivare altri step di transizione negando un riconoscimento e la possibilità di avviare una reale transizione a sistemi migliori. In Emilia-Romagna dove si sta lavorando bene su questo tema, la regione ha promosso un sistema con tre livelli per specie e distribuirà i fondi a seconda del livello in cui si trova l’allevatore. In questo modo nessuno resta indietro”.
Invece a livello nazionale si cercano di nascondere le disparità tra gli allevatori, con il risultato che è impossibile incentivarli a fare meglio e impegnarsi per una reale “transizione ecologica”. Per questo le associazioni hanno richiesto che “venga stabilito almeno un altro livello al coperto, con densità di allevamento minori e migliori standard di benessere, portando a 4 i livelli disponibili (1 livello che rispetta la legge, 2 livelli al coperto che hanno standard più alti di benessere e 1 all’aperto)” e che dalla certificazione siano categoricamente esclusi “a prodotti derivanti da animali provenienti da scrofe allevate in gabbia”.
A rendere più complessa la formulazione di un decreto efficace, ci sono altri fattori di contesto. Le associazioni rimproverano ai ministeri di lavorare a porte chiuse, senza aver mai convocato un tavolo di lavoro. “Quello che abbiamo cercato di fare in questi anni è mantenere il dibattito aperto, facendo noi stessi delle proposte” rivendicano da CIWF. Intanto nel decreto si parla anche dell’istituzione di un comitato tecnico-scientifico pensato per redigere gli standard per la certificazione. Ma nello stesso decreto gli standard sono già definiti, in una sorta di corto circuito amministrativo che potrebbe avere una ragione ben precisa: la fretta. Se si andasse per step infatti, alcuni fondi PAC potrebbero sfuggire agli allevatori che non riuscirebbero ad accedervi in assenza delle certificazioni.
E sono proprio i tempi a preoccupare, perché date le premesse e gli interessi in campo, la transizione verso il benessere animale potrebbe tradursi in un nulla di fatto. “Noi abbiamo inviato le nostre considerazioni, ma non sappiano se e in che modo verranno prese in considerazione” e ancora “Una certificazione con standard poco ambiziosi, ingannevoli, riduttivi e senza un numero di livelli adeguato ad una effettiva transizione degli allevatori che si impegnano in questo percorso, sarebbe un inganno per i cittadini, e un boomerang per le aziende italiane, che si troverebbero a investire in un logo che tradisce la fiducia dei consumatori prima ancora di arrivare sul mercato” scrivono in una nota ufficiale”.
Deve essere chiaro che non si tratta solamente di allevare maiali in condizioni di non-benessere o di semplici cavilli amministrativi. Le stesse associazioni ritengono l’etichettatura “uno strumento potenzialmente valido e necessario sia per veicolare informazioni chiare e corrette ai consumatori, sia per stimolare la transizione verso sistemi di allevamento più rispettosi del benessere animale”. Quando un consumatore acquista un prodotto con un bollino di benessere animale, non pensa che sta acquistando da allevamenti intensivi, ma pensa di sostenere una filiera che agisce, per quanto possibile, nell’interesse degli animali. Quindi una certificazione rilasciata in queste condizioni può tradire la fiducia di chi compra. Allo stesso modo non si dà l’opportunità all’allevatore che fa un investimento di vedere riconosciuto l’impegno nell’attuazione di pratiche più attente. Insomma, alla fine, chi ci guadagna?