Ve lo ricordate Morgan Spurlock? Anzi no, ve lo ricordate Super size me? Sì, il documentario in cui sto pazzo americano si lanciava contro la cosa più americana che c’è – l’industria del fast food, il concetto stesso del fast food – nella maniera più americana possibile: non con raffinate analisi o indagini indirette, ma buttandosi in prima persona, cioè mettendosi a mangiare hamburger e altri piatti del McDonald’s, e solo quelli, per un mese di fila.
Da quel film che fece scalpore, e possiamo dirlo, storia, sono passati giusto vent’anni. E proprio quest’anno, il 23 maggio, Morgan Spurlock è morto, di cancro, a soli 53 anni. Coglie l’occasione di questa tragica coincidenza il sito Eater, per tracciare un bilancio dell’eredità di Spurlock e della sua opera. Un bilancio che è per forza di cose fatto di luci e ombre, ma su cui va operato un distinguo tutt’altro che cavilloso, tra lato personale e lato politico-artistico.
L’eredità di Morgan Spurlock
Se ci eravamo quasi dimenticati di Morgan Spurlock, tanto che per molti la notizia della morte ha sbloccato un ricordo, come di quello zio strambo che non si vedeva da un sacco di tempo, mo che ci penso, non era solo per colpa nostra e di questa società che divora le novità al ritmo di video Tik-tok. È che in effetti la parabola di Spurlock era da tempo discendente: aveva prodotto e girato molti film, ma nessuno di questi era manco per sbaglio arrivato al successo del suo capolavoro.
Tanto che a un certo punto, nel 2017, aveva provato a fare il sequel, Super Size Me 2: Holy Chicken!, sull’industria avicola. Ma proprio nello stesso periodo scoppiava la tempesta del me too, e Morgan veniva coinvolto con accuse, per sua stessa ammissione vere, di abusi e molestie sessuali. Gli incassi del film erano rimasti al di sotto delle aspettative, e del predecessore, in maniera abissale. E il regista era sprofondato in un oblio da cui non s’è mai più ripreso.
Un aneddoto significativo è contenuto proprio nel film: a un certo punto Spurlock chiede un prestito a una banca locale per aprire un allevamento di polli, e il tizio gli fa: ma lei per caso è un documentarista? Cornuto e mazziato, come si dice: dimenticato dal grande pubblico, marchiato a vita per gli addetti ai lavori.
Negli anni del me too, poi, il regista aveva anche confessato di aver combattuto per lungo tempo con problemi di alcolismo, un tempo in cui ricade anche il periodo dell’ideazione e del montaggio di Super size me. Ma questo getta un’ombra di discredito non solo su di lui, ma anche sul film stesso?
L’eredità di Super size me
Per capire davvero cosa è stato Super size me nella cultura americana, dovremmo essere americani. Dovremmo cioè avere una relazione col cibo basata sul rapporto quantità/prezzo, dovremmo aver vissuto entusiasticamente e senza remore l’ascesa di McDonald’s e compagnia, il trionfo della cultura del fast food: per noi europei, per noi italiani in particolare, non è un esercizio facile. Volenti o nolenti noi eravamo più indietro, quindi più avanti: ancora comunque legati a un’idea di cibo genuino, vicini storicamente e geograficamente alla cultura contadina. D’altra parte, la scintilla che ha portato alla nascita di Slow food nel 1989, si sa, fu l’apertura di un McDonald’s in Piazza di Spagna a Roma. Gli anticorpi ce li avevamo, voglio dire, non si cadeva mica dal pero noialtri.
Invece negli Stati Uniti fu un terremoto. Innanzitutto per il successo in sé del film: 65mila dollari di costo, 22 milioni di incassi: cifre astronomiche per un documentario. Ma questi numeri significano soprattutto che un botto di gente vide il film, e a molti un po’ si aprirono gli occhi. Gli effetti furono sia a breve che a lungo termine: addirittura qualche settimana prima dell’uscita della pellicola, ma quando già c’erano stati leak e anticipazioni, McDonald’s tolse l’opzione “super-size” dai suoi locali; ufficialmente senza nessuna connessione, ma insomma.
Il pezzo di Eater fa partire da Super size me l’inizio della fine della cultura fast food, e la parabola ascendente della concezione contemporanea del cibo, tra il bio e il gourmet, con tutti i suoi eccessi. Ora questo è senza dubbio eccessivo, ma vanno riconosciuti al film enormi meriti. Col suo miscuglio di accuratezza scientifica e gonzo journalism, si è inserito in un filone nascente, anzi forse ha contribuito a fondarlo: quello del documentario sul cibo come prodotto non di nicchia ma pop. Da Fast Food Nation (per la verità del 2001), a Il dilemma dell’onnivoro di Michael Pollan (tratto dal suo omonimo libro, 2006), Food Inc. (2008), Forks Over Knives (2011). Un filone che giù giù per li rami arriva fino al nostro Food for profit, o all’omaggio esplicito che lo stesso autore di Eater gli aveva reso compiendo, prima della morte di Spurlock beninteso, un’analoga prova in prima persona, ma con il cibo più salutare che c’è, in teoria, le insalate: Salad size me.
Il capolavoro di Spurlock era all’avanguardia anche da un punto di vista tecnico-stilistico, fino a essere profetico. Nel 2004 gli smartphone erano di là da venire, e il regista compiva un gesto di rottura: gira la telecamera verso di sé, diventa il protagonista della propria stessa narrazione. Cosa che nello stesso periodo faceva un altro grande, e grandemente controverso, documentarista: Michael Moore con Bowling a Columbine (2002).
“Super Size Me è l’ennesimo esempio di come lo storytelling, anche lo storytelling imperfetto, abbia la capacità di spostare le montagne, almeno un po’ – ha scritto il Washington Post alla morte di Spurlock – Montagne come McDonald’s”. Certo McDonald’s è ancora lì, ma il panorama del fast food forse si è evoluto: sono nati marchi che tentano di conciliare “veloce” e “salutare”, e gli stessi super brand globali provano in continuazione a darsi una ripulita (che i critici bollano come di mera facciata) su filiera, ingredienti, sostenibilità ambientale e salute.
In definitiva, più ombre che luci forse nel bilancio personale di Morgan Spurlock, certamente più luci che ombre nel bilancio di Super size me. Spurlock ha avuto una grazia che non è concessa a molti: creare qualcosa che sia meglio di chi l’ha creata. Non è forse l’augurio più bello che possiamo fare a chiunque, compresi noi stessi?