Esiste, in merito alla Laguna di Venezia, un immaginario collettivo che si trasforma in equazione gastronomica e che associa la cucina locale unicamente al pesce. In realtà sfogliando volumi di storia della cucina veneziana o più semplicemente tornando indietro agli anni ’60, quando ancora caccia e pesca erano attività complementari, si scopre un altro volto della laguna, quasi mai raccontato, altrettanto affascinante e capace di regalare soddisfazioni culinarie davvero rare. L’ecosistema composto di barena, fango, zone umide e riparate infatti, non rappresenta un unicum solo per la fauna ittica, ma anche per la selvaggina.
Accade così che, ogni anno, in fase migratoria, diverse specie di uccelli scelgano la laguna veneziana come ambiente privilegiato: alcuni dal Nord-Europa si dirigono verso l’Africa, altri arrivano a partire dal periodo tardo-invernale fino a quello estivo per riprodursi, altri ancora vengono a svernare in Italia da territori più settentrionali.
Se il pesce rappresenta la narrazione più intuitiva della laguna, la caccia disegna un ambiente parallelo, meno immediato, costruito su attese, appostamenti, studio, pazienza, freddo che pizzica e umido che consuma, albe capaci di commuovere il più rude dei cacciatori e conoscenze ancora trasmesse da padre in figlio, che altrove non esiteremmo a definire anacronistiche, ma che – a Venezia e tra le isole – sono in realtà ben vive, seppure in progressiva scomparsa.
I rischi, nel parlare di caccia, sono diversi: da quello di incorrere in critiche da parte di animalisti, a quello di delineare un ritratto romantico del cacciatore, come una sorta di figura ancestrale che imbraccia il fucile per sopravvivere. Qui non ci schieriamo né da una parte né dall’altra: l’unico rischio che ci assumiamo volentieri è quello di raccontare in modo oggettivo una parte della storia lagunare quasi dimenticata, facendoci spiegare da un esperto quali sono le principali specie di uccelli cacciabili e quale sia il loro uso in cucina.
Ci siamo fatti accompagnare da Andrea Turchetto, che coltiva da anni la passione per la caccia, in una narrazione che – spoiler – è iniziata in un magazzino pieno zeppo di stampi da caccia, è proseguita sfogliando libri con immagini di anatidi ed è finita a tavola, di fronte ad un piatto di selvaggina e polenta.
Come si caccia in laguna?
Prima di salire in barca e dirigerci tra barene e ghebi (piccoli canali), è d’obbligo una premessa. La laguna è speciale anche in questo: niente cani né terraferma, ma barche, botti, e valli. Fino agli anni ’60 l’attività venatoria era complementare alla pesca e si trasformava in fonte di sostentamento e guadagno: quando la stagione di pesca era terminata, gli stessi pescatori si trasformavano in cacciatori, salivano sullo s-ciopon andavano a caccia.
Dove il dialetto alza paletti e barriere di comprensione, arriva in soccorso l’onomatopea. Lo s-ciopon è un’imbarcazione tipica (un particolare tipo di sandolo per la precisione), che prende il nome dallo s-ciopo, cioè una grande spingarda (fucile), lunga circa tre metri sistemata all’interno della barca: la parte posteriore veniva collocata sul “trasto” dell’imbarcazione, mentre la canna era rivolta verso la prua. Leggerissima (pesava circa 80 kg: il fondo era di legno di abete, la parte che reggeva il fucile in larice) e bassissima (per muoversi meglio nei fondali bassi della laguna), aveva una peculiarità, la falca: la fascia laterale destra era modellata in modo che il cacciatore potesse distendersi nell’imbarcazione e continuare a vogare senza farsi vedere dalle prede utilizzando un remo più piccolo (in tutto i tipi di remi usati erano 3), “palina”
Il colpo veniva esploso a pelo d’acqua ed era di una potenza tale da causare un rinculo di svariati metri. Le battute di caccia duravano giorni interi, il prezzo per le prede era “a mazzo” e i personaggi che si rendevano protagonisti di prove del genere – più simili ai ritratti usciti dalla penna di Melville, London e Coleridge – sono ormai entrati nella memoria della storia veneziana. Se il passato – nonostante la fame e il fatto che si cacciasse per guadagnare qualche soldo in più – si ammanta di romanticismo e si fa romanzo, e se rispetto ad un tempo le modalità sono cambiate, non meno affascinante è la caccia odierna, praticata in botte o in valle.
La caccia libera, in botte
Abbiamo detto diverse volte che la laguna è speciale: non è spocchia, è un dato di fatto. La caccia in botte nasce qui e a raccontarla, ancora una volta, si ondeggia tra l’italiano e il dialetto, tra le precise disposizioni della legislazione e una realtà fatta di resistenza alle intemperie, molta pazienza e racconti di tramonti e cieli stellati che non si vedono da nessun’altra parte. La caccia in botte è libera: le botti, (un tempo in legno ora in cemento) sono posizionate in luoghi fissi, ma non sono “prenotabili”. Il cacciatore cioè, raggiunge la botte con la propria imbarcazione: la barca viene nascosta in un ricovero – la coveia – fatto di erbe e canne, che ne consente la mimetizzazione, poi ci si sistema nella botte, in punta di barena, luogo che consente al cacciatore di stare a pelo d’acqua. Si sistemano i propri stampi. E si aspetta. Quello degli stampi da caccia è un capitolo a parte. Andrea Turchetto ci ha scritto un libro e possiede una delle collezioni più grandi d’Europa: circa mezzo migliaio di anatidi in legno, sughero o canna, modellati secondo le sembianze degli uccelli che si vogliono cacciare e che tiene nel suo magazzino, con estrema cura. Ci racconta che, diversamente dal passato, ora gli stampi sono in pvc, certamente più resistenti ma non così verosimili. L’arte degli stampi raggiunge livelli tali di accuratezza che gli animali sono realizzati in modo tale da riprodurne comportamenti specifici e pose. Con un peso sul fondo che ne garantisce stabilità, vengono sistemati a seconda che la specie sia gregaria (gli uccelli tuffatori, per esempio, per cui si mettono più stampi) o meno (gli uccelli di superficie, che per cibarsi mettono la testa sott’acqua). Gli stampi sono opere d’arte prima che “richiami” veri e propri, e saperli usare in modo corretto (a seconda di stagione, periodo, specie e zona) dà la misura della preparazione del cacciatore: gli uccelli, insomma, non si fanno ingannare così facilmente e sanno riconoscere un loro pseudo-simile in plastica che nuota male e che ondeggia tutto storto.
La legge consente un numero massimo – 25 – di prede al giorno: “quando ne prendiamo 2 o 3”, dice Andrea “siamo felici”. La botte è preparazione della barca, attesa, abilità, fortuna, solitudine, condivisione di uno spazio limitato con qualcuno di cui si ha fiducia, e soprattutto un modo di vivere la laguna che esclude tutto il resto per 24 ore. Si è in mezzo all’acqua salmastra, tra odore di sale, terra e fango e “il cielo stellato sopra di me” per dirla come Kant. Gli occhi di Andrea in realtà descrivono cieli stellati che neanche il sommo Kant crediamo abbia mai visto.
La caccia in valle, nei casoni
Dei casoni avevamo parlato a proposito della pesca, ma ci ritorniamo perché sono gli stessi dove si pratica il secondo tipo di caccia, in aziende faunistico venatorie. Le condizioni sono diverse, più comode, più raffinate e con un livello di languidezza evocato da camini accesi, cene consumate tra amici e molte bottiglie. In valle è più facile cacciare, perché per gli anatidi sono luoghi ideali, fatti di argini, acqua, tamerici, spazi per mangiare e riposarsi: malgrado non sia corretto parlare di allevamento (tutte le specie che citeremo non si allevano, sono migratorie. E la legge vieta la pasturazione) è pur vero che in valle si creano delle condizioni particolarmente favorevoli per gli uccelli, che ne conservano memoria per il passaggio successivo. La caccia in valle è costosa: si affitta la valle per la stagione e la presa è garantita. I cacciatori di terreno libero storcono un po’ il naso: perché è troppo facile e perché si perde quella parte di attesa e di rischio di non cacciare nulla. Una diversa visione del mondo, in realtà: quasi un discrimine culturale e di classe, verrebbe da dire, non troppo lontano dai divertimenti della nobiltà contro la necessità del popolo.
Selvaggina da penna: le specie da conoscere
Turchetto elenca in modo meticoloso specie, caratteristiche, colore delle piume e comportamento e zone geografiche: non è una puntata di Quark, ma piuttosto un modo diverso di vivere e osservare la laguna, meno immediato e precluso alla maggioranza. Le specie sono una decina: come al solito, c’è il dialetto e c’è l’italiano, il dialetto però è tutto un altro modo di raccontare, più colore e meno lezione in cattedra di etologia con il professore vestito di velluto, camicia a quadretti, occhiali e registro aperto per i voti.
Mazorin (Germano reale)
E’ la più diffusa tra le specie di anatre selvatiche: ha il collo di un bel verde scuro, e un sottile collarino bianco fa contrasto con il nero del petto. Preferisce luoghi tranquilli – paludi, stagni, laghi e fiumi – circondati da porzioni di terreno sufficienti per fare il nido. E’ l’unico esemplare che nidifica e c’è tutto l’anno, in laguna. A conferma di quanto comune fosse in passato, vale la pena citare Pompeo Gherardo Molmenti, storico e politico veneziano che parlando delle abitudini alimentari dei veneziani, anche prima del Mille scrive “Il vitto dei primi veneziani, oltre che di carne di bove, capretto e maiale, era composto anche di quanto offrivano in gran copia la caccia e la pesca. (…). Sulle lagune numerosi gli uccelli palustri come le anatre selvatiche (osele), i maggioringhi (mazorini), le folaghe, i chiurli, le cercedule, le arzagole”.
Goldoni, nelle cui commedie si mangia sempre molto, in “Chi la fa l’aspetta”, ci ricorda come le anatre (in generale) fossero frequenti in tavola: le fa elencare a paron Menego, uno dei protagonisti, tutto il selvadego (il selvatico: in passato con questo termine si intendevano tutte le prede di caccia, provenienti sia dalla Laguna che dai prati e boschi di terraferma) si potesse trovare nelle trattorie veneziane: “lonza, straculo, cingial, lievro, agnello, cavretto, pollastri, dindi, capponi, ànere, quaggie, gallinazze, beccanotti, pernise, francolini, fasani, beccafichi”
In cucina, le ricette che lo vedono protagonista sono diverse: dal “mazorin alla vallesana” – per cui viene messo a marinare in aceto con timo e maggiorana, poi cotto fino a metà cottura con burro e lardo ed infine finito di cuocere con sarde e capperi precedentemente fatti soffriggere nel burro – agli “osei in salmì” (con un trito di durelli, fegatini, ali e colli).
Pignolo (canapiglia)
Detto cappone di valle, è il più prelibato. Di colore neutro, ha uno specchio alare con una riga bianca e il petto tutto picchiettato. Ama le zone umide, aperte, con bassi fondali e che offrano rifugi all’interno della vegetazione. Come tutti gli uccelli di superficie (nell’elenco sottostante, fino al mestolone compreso) nutrendosi di erbe (foglie, tuberi, germogli, radici e alghe), ha una carne più gradevole e morbida.
Asià (Codone)
Il nome italiano si deve alla lunga coda appuntita e filiforme che lo rende immediatamente riconoscibile. La testa e parte del collo sono di color bruno con una striscia bianca che scende lungo il collo. Sverna regolarmente in Italia, ed è presente in alta concentrazione in dicembre e gennaio. Cerca ambienti riparati, vicino a zone umide costiere e si concentra in zone limitate ma in grandi numeri.
Ciosso (Fischione)
Testa rossa inconfondibile e con una evidente fascia color crema che spicca al centro, il fischione cerca luoghi umidi, aperti, con aree fangose, sabbiose o salmastre, ricche di vegetazione sommersa, come ad esempio le zone della laguna caratterizzate da forti escursioni di marea.
Sarsegna (Alzavola)
Riconoscibile per la testa rossa e una sorta di goccia verde sull’occhio, è una specie molto abbondante in laguna in particolare durante lo svernamento, tra dicembre e gennaio. Ama le zone di confine tra acque poco profonde e aree con vegetazione galleggiante. E’ la specie più presente nelle valli da pesca, sia della laguna nord sia della laguna sud, caratterizzate da bassa salinità dell’acqua. Secondo alcuni, è la migliore dal punto di vista gastronomico.
Crecoa (Marzaiola)
Un nome che ne evoca il mese di maggior presenza e quello in cui – visto il calendario venatorio, che va dalla terza settimana di settembre a gennaio – non è possibile cacciarla. E’ l’unica anatra europea quasi totalmente migratrice su lungo raggio (sverna a sud del Sahara). Si riconosce per la testa marrone con un sopracciglio bianco molto largo che va dalla parte anteriore a quella posteriore dell’occhio e raggiunge la base della nuca. Si alimenta a coppie o in piccoli gruppi, perciò gli stampi dovevano essere posizionati in modo adeguato, senza troppo affollamento: come a dire che mangiare in due è più intimo rispetto ad una sagra di paese molto frequentata.
Foffano (Mestolone)
E il caso in cui il nome in italiano fa più simpatia di quello in dialetto. Se non fosse già indicativo di un uccello non particolarmente amato in tavola, mestolone sarebbe un ottimo soprannome da estendere a una tipologia particolare di genere umano. Sgraziato a causa di un becco sproporzionato rispetto al corpo, pur appartenendo alla categoria degli uccelli di superficie, e quindi con carni in genere migliori rispetto ai tuffatori, parte svantaggiato: l’alimentazione non solo vegetale (mangia anche piccoli molluschi) ne rende peggiore la carne, inoltre – la natura a volte si accanisce con chi ha già un suffisso imbarazzante nel nome – le lamelle nel becco filtrano praticamente tutto. Nota per chi ama le origini dei cognomi: Foffano è cognome diffuso a Venezia.
Magasso (Moriglione)
Testa e occhio rosso acceso, è un’anatra tuffatrice (cioè si immerge per mangiare) che ama sia acque tranquille in cui poter trovare vegetali affioranti da mangiare, sia zone salmastre in cui sostare durante la migrazione. E’ un uccello gregario e, come il precedente, dà origine ad un cognome comune. Le valli del Po sono un’altra zona che rappresenta un buon habitat: e a Rovigo, particolarmente apprezzata è una minestra con le carni del magasso, in inverno ovviamente.
Penacin (Moretta)
Testa nera con un bel ciuffo cadente all’indietro, è una specie che in laguna conta poche unità, che si concentrano in zone con acque dolci o debolmente salmastre e fondali di media profondità.
Folaga
Non è un anatide ma appartiene alla famiglia dei Rallidi: è inconfondibile per il colore nero e la tipica macchia bianca sulla fronte che riprende il colore chiaro del becco. Ama gli stagni calmi, i terreni umidi con piante acquatiche e canne palustri. E’ una specie onnivora, che passa dalle erbe a piccoli pesci, molluschi, insetti. Una delle ricette più classiche è il risotto, che vuole che le carni, in genere dopo la marinatura, siano separate dalla carcassa, che viene fatta bollire per ricavarne un brodo che servirà per bagnare il riso. Un soffritto classico rosola petti e cosce, tritati sottilmente e che devono essere cotti per circa una mezz’ora. A quel punto si aggiunge il riso e si prosegue la cottura bagnando con il brodo.
A tavola (spostando i libri di etologia)
Dalla cucina di Turchetto esce un profumo articolato, nel quale si riconoscono le verdure di un soffritto a regola d’arte e una carne raramente odorata prima. I petti di germano reale arrivano a tavola insieme alla polenta: le carni sono scure, morbide, saporite: il selvatico è quasi scomparso ma le tracce ci sono, piacevoli, e sono lì a ricordare che la selvaggina seleziona i commensali: non è una carne per tutti. I petti che assaggio sono stati decongelati (il passaggio in freezer funziona come una sorta di frollatura), lavati bene e passati in padella bollente in modo che sangue e acqua fuoriescano e possano essere eliminati. Un soffritto classico li ha accolti, con l’aggiunta di sale, pepe e un trito fine di rosmarino e salvia. Il vino li ha ricoperti e due o tre ore di cottura li hanno resi un’opera gastronomica eccellente.
Nonostante ci sia ancora chi sostiene che la carne della selvaggina di laguna vada fatta frollare e sia pronta nel momento in cui la testa si stacca dal corpo, lasciamo questa sorta di leggende da opere pittoriche a tema natura morta, agli esperti d’arte. In cucina i modi per ammorbidire carni certamente di non facile comprensione sono molteplici. E la base di ogni preparazione è comunque la cottura lentissima e a fuoco basso. Una classica marinatura con aceto, vino rosso, ginepro, pepe, alloro, ad esempio, prepara i petti ad una cottura che prosegue in padella, dopo una rosolatura per sigillare la carne, e si conclude poi in forno.
[Crediti: foto dello s-ciopon, osteria “da Seppa” alla Giudecca, pubblicata da WWF Venezia]