Avete programmato un giro tra i bacari, e volete sapere quali sono i cicchetti di Venezia da provare. Vi siete informati sulle tappe imprescindibili (a proposito: sapete, vero, che vi stiamo portando in giro per i bacari di Venezia in modo tale da darvi tutte le informazioni per scegliere ed evitare delusioni?). Avete perfino sottomano gli orari dei vaporetti per riuscire a compiere tutte le soste. Siete pronti per accompagnare spritz e ombre (di vino) con un degno boccone. Eppure manca un dettaglio: la lista dei cicchetti. Siamo qui per questo. Per farvi fare bella figura al momento di ordinare e soprattutto per aiutarvi nella scelta, abbiamo preparato una lista dei 10 grandi classici che ogni bacaro che si rispetti dovrebbe avere.
Nessun obbligo, in realtà: il bello di Venezia sta proprio nel fatto che, a partire dai cicchetti storici e imprescindibili, ogni oste lascia spazio alla propria creatività e dà vita ad accostamenti inediti e gourmet. Tuttavia, crediamo sia utile partire dall’inizio e farvi assaggiare gli intramontabili: sia perché fanno da metro di valutazione per giudicare un bacaro (anche se non è detto che li troviate, tutti, ovunque), sia perché, in un tour che si rispetti, un paio di grandi classici devono essere assolutamente essere inseriti: insomma è come se si volesse vivere solo di stelle Michelin e dimenticare le trattorie.
Sarde in saor
Per chi ancora non lo sapesse, in dialetto saor significa sapore. Appena entrati in un bacaro, tuttavia, e non appena ordinata la vostra porzione di sarde, capirete che il dizionario veneto-italiano non è così indispensabile. Più utile invece è avere un palato in grado di gestire la potenze delle sarde, che prima seducono con l’agrodolce poi vi lasciano sul campo, provati.
Agli appassionati di storia della gastronomia potrà interessare sapere che le radici di uno dei piatti più amati della cucina veneziana sono popolari: la necessità, specie per marinai e pescatori, di conservare il pesce pescato per averne disponibilità durante i viaggi in mare, in cui l’alimentazione non si caratterizzava certo per grande varietà. Quindi ecco spiegati sia l’aceto che le cipolle, ottimo antidoto contro lo scorbuto (dovuto a carenza di vitamina C), malattia diffusissima tra chi andava per mare.
Uvette e pinoli, cui si riconosce una maestria senza rivali nel titillare il palato, tra morbida dolcezza e masticabilità che sa di resina, sono variazioni raffinate, testimoni del ruolo di Porta per l’Oriente svolta da Venezia per secoli: influenze mediorientali (alcuni dicono legate alle tradizioni ebraiche) a parte, su alcuni dettagli non si transige. La cipolla, per qualità e quantità: quindi rigorosamente proveniente da Chioggia o dagli orti lagunari e rigorosamente dosata in rapporto 2 a 1 rispetto alla sarde (2 kg di cipolle rispetto a 1 di sarde).
La preparazione è laboriosa: le sarde vanno fritte in olio abbondante, poi disposte a strati alternate a cipolle – stufate nell’olio sfumate con l’aceto – uvetta e pinoli, quindi lasciate risposare per almeno 24 ore. Vi risparmiamo i dibattiti sull’uso del vino bianco o sulla presentazione delle sardine, aperte a libro oppure richiuse dopo la pulitura. Il consiglio è di assaggiarle in occasione della festa del Redentore (ogni terzo sabato di luglio) in un bacaro o ancor meglio a bordo di uno dei barconi che affollano il bacino di San Marco, in attesa dei fuochi d’artificio.
Baccalà mantecato
Due ingredienti: pane, baccalà. Punto. Unica variazione ammessa, quella che vede sostituire al pane la polenta sotto forma di supporto per il mantecato. Sul baccalà mantecato si potrebbe aprire un dibattito (spoiler: lo faremo, lo faremo. Vi faremo vedere come viene fatto, vi spiegheremo quali sono le differenze tra le diverse interpretazioni della tradizione): per il momento quello che vi serve sapere è che la sua presenza o meno all’interno della proposta di cicchetti in un bacaro segna un discrimine.
Perché l’innovazione va sempre premiata, come dicevamo, ma il rispetto di alcuni capisaldi è segno di conoscenza della tradizione e umiltà. Quindi, prima di farvi attrarre da bocconi multicolore, cercate quello più semplice di tutti, che se fatto a regola d’arte è cremoso, ma non al punto da far perdere la masticabilità, dolce ma mai stucchevole, abbondante e con un colore indefinito (avorio-beige-grigio-tortora). Fate attenzione ai punti più scuri che indicano un’esposizione all’aria un po’ troppo prolungata e una freschezza che fu. Per il resto, affondate i denti nel morbido e attenzione a non sporcarvi la punta del naso.
Polpette
C’è chi come Massimo Montanari, illustre storico della gastronomia (e mio docente amatissimo), alla polpetta ha dedicato un volume “Il riposo della polpetta”. C’è poi chi, più semplicemente, traduce l’amore verso la polpetta non tanto in un saggio, ma in un tour tematico dedicato. La polpetta, un po’ come la mozzarella in carrozza più sotto, non è certo veneziana (anche se nella dizione veneta esistono le “polpete a la poareta”, polpette alla poveretta, come ricetta codificata. Tant’è.).
Un cibo povero trasversale, un’opera di recupero che diventa arte. La polpetta perfetta rifiuta l’idea del semplice assemblaggio: accidenti, ci vuole maestria anche nel riciclo. Perciò, se La Polpetta Ideale è quella con la carne, essa si moltiplica poi in diverse varianti, principalmente ricomposte nelle famiglie delle verdure e dei pesci. Melanzane e tonno sanno come rubare la scena, tuttavia la classica polpetta di carne (preparata con il bollito avanzato, macinato magari con un po’ di salsiccia, prosciutto o mortadella, amalgamata con uovo, formaggio grana, una patata lessata schiacciata e fritta in olio bollente) resta intramontabile e uno dei capi must have che ogni frequentatore di bacari deve provare. Una petite robe noire lagunare disponibile peraltro in diverse varianti: cotta al forno, per sentirsi meno in colpa, o in umido, per mettere alla prova la vostra camiciola bianca appena stirata. Inutile dire che dev’essere consumata calda, che deve essere morbida e non asciutta. Se dopo il primo boccone avete difficoltà a staccare il morso, abbandonate il locale.
Mezzo uovo con l’acciuga
Altrimenti detto “meso vovo co’ l’aciugheta”, è uno dei classici della storia dei cicchetti cittadini, che accompagna da sempre il rito conviviale dei frequentatori dei bacari, in particolare gli avventori di una certa età, magari amici da decenni. Semplice, economico e capace di riassumere il senso della vita: uova sode tagliate a metà, condite con sale, pepe e olio, guarnite con un’acciuga sott’olio infilata con uno stuzzicadenti. La versione più ricca (sic!) prevede un’oliva, che nell’economia del cicchetto non è guarnizione ma è investita di un ruolo ben preciso (l’assaggio vi svelerà quale). Visto che gli ingredienti sono due, non si può barare: un uovo non più fresco o un’acciuga troppo salata potrebbero trasformare il vostro boccone in uno spuntino da dimenticare presto, magari aiutandosi con un sorso di vino.
Mozzarella in carrozza
Avete pronta l’obiezione, lo so. Bollente come una mozzarella in carrozza appena fritta. Avete ragione: la mozzarella in carrozza non è veneziana. Ma a Venezia, se permettete, ha trovato casa, si è sistemata, accomodata ed è diventata un po’ più ruffiana. Sulla carta piatto facile, tanto più che nasce da esigenze di recupero: fette di mozzarella racchiuse in fette di pane in cassetta, passate nell’uovo (alcuni anche nel latte) e poi fritte. Varianti: passaggio nella farina o nel pangrattato prima della frittura. A Venezia la mozzarella in carrozza, rettangolare e dorata, viene farcita con l’aggiunta di un’acciuga oppure una fetta di prosciutto cotto (qui le fazioni si dividono tra quanti sostengono la spinta sapida dell’acciuga e quanti preferiscono la dolcezza accomodante del prosciutto): la pastella la rende bella gonfia. La difficoltà, neanche a dirlo, sta nella frittura, che non deve trasformarla in una spugna gommosa e carica d’unto ma in un contenitore morbido e croccante. Il rischio, inoltre, è di trovarvi di fronte un blocchetto freddo e indigeribile. La mozzarella in carrozza, insomma, non è un cicchetto, è un’insidia da passeggio. (Tuttavia, la buona notizia c’è: il luogo che da decenni frigge alla perfezione si chiama rosticceria Gislon. Punto di riferimento per veneziani, ha sfamato generazioni intere. Il punto è sapersi fermare dopo una sola).
Musetto e polenta
Laddove gli altri hanno il cotechino e lo zampone, in Veneto abbiamo il musetto, variante preparata con le carni del muso del maiale. Variante stagionale, ovviamente. Quando i primi freddi ma soprattutto le prime nebbie cominciano a intaccare le ossa, quando l’animo dell’abitante di laguna comincia ad ingrigirsi di fronte alla prospettiva dell’ennesimo inverno fatto di aria nebulizzata e acqua alta, ecco che l’antidoto, oltre ad un’ombra di vino, è il musetto. Terapeutico, trova nella polenta il suo accompagnamento ideale, visto che aiuta ad assorbirne il grasso. L’oste, per magnificare le qualità del suo musetto, rigorosamente migliore di quello altrui, scrive sulla lavagnetta, che “xè rivà il musetto che peta” (o “petaisso”), che suona come: “è arrivato il musetto che appiccica” (o appiccicoso) sinonimo di artigianalità. La variante primavera/estate prevede che al musetto sia sostituita la sopressa: motivo in più per frequentare Venezia lungo tutto l’arco dell’anno.
Fritti
I fritti sono interregionali, sono patrimonio dell’umanità, sono lo street food per eccellenza. Detto ciò, è vero che Venezia trova nel fritto la sua anima più popolare. Se i fritolini infatti rappresentavano una specie di sottocategoria degli osti specializzata in fritti, non serve ricordare che, oltre al salato, Venezia è il luogo delle frittelle. Tuttavia, tornando ai bacari, un bancone che si rispetti deve avere almeno una di queste proposte: fiori di zucca ripieni, verdure varie (non fatevi ingannare dai congelati), baccalà (raro: i nostalgici ve ne sveleranno il nome: batagin, cioè il baccalà sotto sale – non quello seccato – fritto), pesce misto. C’è chi propone lo stecco di calamari fritti da passeggio (ve ne parleremo) e chi frigge anche la crema (per quella dovete aspettare il Carnevale).
Bovoleti
Altro cibo amatissimo dai veneziani in occasione della Festa del Redentore. Trattasi di lumachine da terra, che si trovano nelle sterpaglie vicino al mare, ai fossi e ai luoghi umidi. Si raccolgono in genere da aprile ad ottobre e si mangiano nei bacari, tra un’ombra e l’altra, o come antipasto al ristorante. Due le indicazioni: devono essere fatti spurgare per bene e devono – pazienza per i vostri commensali – essere condite con abbondante aglio. Si mangiano aiutandosi con uno stuzzicadenti per estrarre le lumachine dal guscio.
Nervetti
Appartenenti alla grande famiglia del quinto quarto, sono i tendini e le cartilagini dello stinco bovino. A Venezia, fin dal Medioevo, si mangiano bolliti, tagliati a pezzetti, conditi con cipolla affettata sottile, sale, pepe, olio, e marinati con l’aceto: il nome in dialetto è “spienza e nervetti co’ e segoe”, cioè milza e nervetti con le cipolle. Nei bacari, li trovate in terrine ordinatamente disposte nel bancone: gli amanti del genere, e i veneziani doc, ne fanno scorpacciate.
Folpeti
Piatto consumato in passato dalle classi più povere, è oggi una prelibatezza. I folpeti sono i moscardini: compongono il piatto di antipasti misti che si trova in molti ristoranti. Nei bacari tuttavia fanno storia a sé: puliti per bene e fatti bollire una pentola di acqua salata, si prendono uno alla volta per la testa facendogli toccare l’acqua bollente finché le dresse (i tentacoli) non si arricciano, poi si immergono e si portano a cottura. I piccoli si lasciano interi, mentre quelli più grandi si tagliano a metà e si condiscono con pepe, olio, limone e sedano tagliato a tocchetti.