Mentre noi qui siamo alle prese con problemi futili come il nuovo governo, il nuovo lockdown, i nuovi colori da attribuire a giorni e regioni, in Canada sì che stanno inguaiati: è scoppiato il buttergate, e da quasi un mese non vengono a capo del mistero del burro, troppo duro per essere spalmato.
Dopo aver infiammato il dibattito nazionale per tre settimane la questione ha bucato i media internazionali ed è uscita addirittura sulla BBC. La miccia è stata accesa da Julie Van Rosendaal, autrice di libri di cucina, con un tweet.
Something is up with our butter supply, and I’m going to get to the bottom of it. Have you noticed it’s no longer soft at room temperature? Watery? Rubbery? pic.twitter.com/AblDzGiRQY
— Julie Van Rosendaal (@dinnerwithjulie) February 5, 2021
Il burro non sarebbe più quello di una volta: non così morbido come dovrebbe essere, a temperatura ambiente, non così comodo da spalmare. Peccato gravissimo, per una nazione fondata sul bread&butter. Il tweet ha immediatamente ricevuto una risposta plebiscitaria: pare che questa cosa la avessero notata in molti. Ed è partita l’indagine.
Le ipotesi che Van Rosendaal ha affacciato subito: un cambio di alimentazione nelle mucche canadesi, un cambio di composizione nel latte con cui è fatto il burro. Mentre questo secondo caso avrebbe a che fare con le quote latte e l’importazione, la prima pista è collegata alla pandemia. Ed è quella che è stata seguita in prevalenza.
La domanda di burro è aumentata durante il lockdown? Certo, come quella di tutti i beni da consumare a casa, comfort food o meno che siano. Ma nello specifico, neanche tanto: il 12%. Ora, è venuto fuori che da anni, per migliorare la qualità e anche la quantità del latte prodotto dalle mucche, gli allevatori canadesi usano mangimi a base di olio di palma. Eccallà: parli del diavolo ecc ecc. La pratica è consolidata e assolutamente legale, ma si sa, la legge non è tutto.
È quello che è effettivamente successo? Le associazioni dei produttori spergiurano che no, assolutamente no: quanto ce ne mettevano prima, tanto ce ne mettono adesso, non hanno aumentato l’olio di palma per fare fronte alla maggiore richiesta. Dall’altro lato il direttore del Laboratorio agrolaimentare della Dalhousie University ha scritto parole di fuoco: “Un buttergate non è quello di cui l’industria ha bisogno, né quello che il Canada merita”.
Grassi saturi e punto di fusione
Ma perché l’olio di palma dovrebbe rendere il burro più duro? L’ipotesi, non verificata, è che l’acido palmitico si trasferisca nel latte e di lì nel burro, alzandone il punto di fusione. Ora è necessaria una parentesi biochimica: sia il burro che l’olio di palma (come anche lo strutto e la margarina) sono grassi saturi, che hanno la caratteristica di avere un punto di fusione abbastanza alto, cioè a temperatura ambiente si presentano ancora solidi o semisolidi. E questo ne rende sia comodo il packaging e il trasporto, sia efficace l’azione da un punto di vista tecnologico: insomma una pasta frolla col burro o con la sugna viene bene, con l’olio no.
Il motivo per cui l’industria alimentare ha iniziato a usare grandi quantità di olio di palma o altri grassi vegetali idrogenati (idrogenati = saturi) è che a parità di funzionalità, essi sono molto più economici del burro. Questo succedeva prima dell’ondata di panico sull’olio di palma, alla quale in pochissimi hanno resistito, Nutella tra questi.
I grassi saturi però sono anche quelli che contengono più colesterolo, e quindi “fanno male”: attenzione, indipendentemente dal fatto che siano di origine animale (burro, strutto) o vegetale (olio di palma, margarina). L’olio di palma però è stato posto sotto accusa anche per motivi etici e ambientali: le piantagioni provocano deforestazione, per dirne una. Ma torniamo a noi: qual è il punto di fusione dell’acido palmitico? Circa 62°C, altissimo come vedete. Allora è vero, direte voi. Però: qual è il punto di fusione dell’olio di palma? Tra i 26 e i 28 gradi. E del burro? Tra i 28 e i 33: più alto, come si vede. Come mai?
Perché anche nel burro, udite udite, c’è dell’acido palmitico: i grassi infatti sono tutti dei misti, dei composti di vari acidi. Nel burro i prevalenti sono il butirrico, il miristico ma sopra tutti il palmitico. Quindi: burro più duro uguale più acido palmitico? Probabile. Burro più duro uguale mucche ingozzate di olio di palma? Non è detto. Lungi da me difendere le nefande pratiche degli allevamenti intensivi: ma dimostriamole. Finora, tra l’altro, gli studi dicono che fino a una certa percentuale l’olio di palma fa produrre alle mucche latte più abbondante e più grasso, ma aumentando il dosaggio i benefici sono sempre più irrilevanti. Quanto olio di palma si deve dare a una mucca perché cambi in maniera sensibile la composizione del latte che produce? Forse dobbiamo tornare all’origine del buttergate.
Julie Van Rosendaal, e tutti gli utenti dei social che a cascata si lamentano della consistenza del burro, parla anche di un prodotto “acquoso” e “gommoso”. Sicuramente c’è qualcosa sotto. O magari no? Non oserei mai provare a risolvere il giallo canadese dalla mia cameretta nella vecchia Europa. Ma… e se fosse tutta suggestione? Una mini-psicosi di massa, amplificata dai social, dalla noia, dalla pandemia?