L’altro giorno leggevo proprio qui su Dissapore l’intervista di Chiara Cavalleris al mio amico Eugenio Signoroni a proposito delle valutazioni della nuova Guida alle birre d’Italia di Slow Food.
Una delle questioni hot era il fatto d’aver tolto la “chiocciola”, cioè il massimo riconoscimento, a Birra del Borgo. Alla richiesta di spiegazioni Eugenio rispondeva:
“Birra del Borgo (ceduta ad AB-Inbev e quindi non più artigianale) ha dimostrato una qualità costante in tutta la gamma, ma non ce la sentiamo di abbinare la chiocciola a una multinazionale.”
[Birre d’Italia 2019: Slow Food spiega perché Baladin ha perso la chiocciola]
Prendo spunto da questo episodio non per occuparmi di birre –di cui certo non m’intendo: ne bevo a ettolitri, soprattutto di industriali– ma del rapporto che abbiamo col capitalismo.
“Mecojoni! – direte – il capitalismo, nientemeno!”.
Tranquilli, tranquilli, nonostante l’anniversario marxiano non voglio affrontare cose troppo grosse per me.
Voglio solo dire questo: dal punto di vista squisitamente gastronomico a me non interessa “chi c’è dietro”. Le cose buone e ben fatte sono buone e ben fatte punto, a prescindere da chi le finanzia.
Ricordo una polemica editoriale che contrapponeva grandi e piccole case editrici e Roberto Calasso, il miglior editore che abbiamo in Italia, quello di Adelphi, commentò: “ci sono grandi gruppi che fanno ottimi libri ed editori indipendenti che pubblicano spazzatura. E viceversa.” (vado a memoria, ma il senso era questo).
Io la penso così.
[Siamo, perché mangiamo cibi industriali da milioni di anni]
Se un colosso acquista un laboratorio artigianale ma la qualità non viene modificata, da goloso per me cambia niente. Poi posso intristirmi da tanti altri punti di vista, ma come gastronomo, no.
Una rosa è una rosa. Anche se si chiama Unilever.