La siccità sta diventando un problema enorme, palese: l’acqua dei fiumi è ai minimi storici, interi tratti del Po sono in secca, girano foto impressionanti e si paventano carestie. Fenomeni estremi come questi periodi secchi sono senza dubbio espressione del climate change, e già questo dovrebbe bastarci a capire che c’è bisogno di visioni allargate, di soluzioni sistemiche, come si dice. Invece si continuano ad avanzare proposte di respiro corto se pur animate da buone intenzioni, come quelle di Fulco Pratesi che dice laviamoci di meno, o di chi punta il dito contro le fontanelle pubbliche e domanda di chiuderle o metterci un rubinetto (e qui abbiamo spiegato perché non è una buona idea).
Chiediamoci piuttosto, per capire se e dove si può risparmiare: chi è che consuma più acqua? Come si dividono tra i vari settori le risorse idriche del pianeta? E qui le risposte non sono così scontate, così note a tutti. Se ci seguite in questa breve panoramica sull’acqua nel mondo, ne vedrete delle belle.
Quanta acqua c’è nel mondo
Innanzitutto ci chiediamo: quanta acqua abbiamo? Si sa che la Terra è composta prevalentemente da acqua: 10 mila miliardi di metri cubi d’acqua che coprono più del 70% della superficie terrestre; però solo il 3% circa è costituito da acqua dolce. Non solo: quasi il 69% di questa piccola percentuale è bloccata in ghiacciai e nevi perenni, quindi non è disponibile – e per fortuna, ché se si sciogliessero avverrebbero catastrofi globali. Il 29% è invece tra le falde sotterranee e le acque di superficie (fiumi, laghi ecc.). Alla fine insomma di tutta l’acqua dolce ne viene utilizzata circa l’8%.
Un altro punto importante è che l’acqua non è equamente distribuita. Tra le zone del mondo più ricche ci sono Sud America, Oceania, Asia Settentrionale e Nord America: il Canada per esempio ha un disponibilità di acqua pro capite che varia dai 10 mila ai 50 mila litri a persona. Gli Stati Uniti hanno invece una disponibilità media di 10 mila litri, come i Paesi europei più ricchi di acqua, cioè i Paesi Scandinavi, l’Islanda, l’Irlanda. In Europa c’è un prevedibile divario tra il nord e il sud, ma l’Italia grazie alle sue catene montuose, soprattutto le Alpi, è il Paese più ricco di risorse idriche dell’Europa meridionale e di tutto il Mediterraneo. Anche noi però abbiamo grandi differenze tra settentrione e meridione.
Chi consuma più acqua
Veniamo al punto centrale: come sono distribuiti i consumi di acqua? Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, nel nostro continente il 44% dell’acqua viene usata dall’agricoltura, il 40% dall’industria e dalla produzione di energia (l’acqua viene usata dalle fabbriche per gli impianti di raffreddamento, per esempio, o per produrre energia con le centrali idroelettriche), e solo il 15% per il consumo umano. Sono dati conosciuti, nessuno scoop, eppure danno un senso delle proporzioni un minimo differente dal sentire comune.
Nel mondo, poi, la differenza è ancora maggiore: 70% nell’agricoltura, 22% nell’industria, 8% per il consumo umano e nel settore dei servizi. Secondo il sito Statista questo enorme divario è addirittura destinato ad aumentare nei prossimi decenni.
Gli sprechi di acqua potabile
Questo non vuol dire che, siccome il consumo umano rappresenta la percentuale minore, possiamo allegramente sperperare quel poco di acqua che abbiamo, tanto mica siamo noi a usarne la maggior parte. E i dati sugli sprechi sono impressionanti: secondo l’ultimo rapporto Istat (marzo 2022), “nel 2020 sono andati persi 41 metri cubi al giorno per km di rete nei capoluoghi di provincia/città metropolitana, il 36,2% dell’acqua immessa in rete”. In totale 0,9 miliardi di metri cubi, “con una perdita giornaliera per km di rete pari a 41 metri cubi”.
Come si accennava sopra, la situazione specifica italiana non è così cattiva, anzi: “In media le precipitazioni annuali registrate in Italia nel periodo 1991-2020 (valore climatico) sono state di 943 mm, pari a un afflusso annuale medio di acqua piovana di circa 285 miliardi di metri cubi. Circa il 53% dell’acqua piovana (498 mm) è però ritornato in atmosfera per evaporazione, dal terreno e dai corpi idrici, e per traspirazione attraverso gli apparati fogliari delle piante (evapotraspirazione reale). La restante parte di acqua (47%) è rimasta sul terreno, una parte infiltrandosi nel sottosuolo (21%) e l’altra scorrendo in superficie (26%), andando pertanto ad alimentare gli acquiferi, i fiumi e i laghi naturali e artificiali del Paese.
L’analisi pone il nostro Paese tra le nazioni con un maggiore apporto pluviometrico, dopo Slovenia, Austria, Croazia e Irlanda. Considerando la media dei periodi 1981-2010 e 1991-2020 l’Italia risulta sempre al quinto posto. In particolare, nelle distribuzioni dei due periodi l’Italia è sempre con valori superiori a tutti i Paesi del Nord Europa”.
Però le cose stanno peggiorando: “Alla tendenza a un aumento generalizzato della temperatura media nei sistemi urbani si sovrappone la precipitazione annua, con una diminuzione di -132 mm sul corrispondente valore del periodo 2006-2015”. E torniamo alla siccità.
Falsi problemi e false soluzioni
Secondo il direttore del Foglio Claudio Cerasa, il problema dell’acqua non sarebbe la siccità ma l’ideologia: la scelta demagogica di aver definito l’acqua un bene comune, e di averla quindi sottratta alla manina invisibile del libero mercato, agli investimenti dei privati che per realizzare il loro profitto distribuirebbero vantaggi per tutti. È la favoletta capitalista, che funziona benissimo, come abbiamo visto da quando sono stati liberalizzati gas ed elettricità: per esempio ora che i prezzi del gas sono saliti, con un’abile manovra finanziaria Eni è riuscita ad aumentare i profitti, mentre le nostre bollette sono triplicate. Efficienza e vantaggi per tutti, proprio.
Anche se guardiamo all’agricoltura, c’è chi continua a ragionare con il mito della crescita perenne. Si legge sul sito della Banca Mondiale che “dato l’aumento della popolazione a 10 miliardi nel 2050, in combinazione con l’aumento del consumo di calorie e cibi più complessi che accompagna la crescita del reddito nei paesi in via di sviluppo, si stima che la produzione agricola dovrà espandersi di circa il 70% entro il 2050. La futura domanda di acqua da parte di tutti i settori richiederà che dal 25 al 40% dell’acqua venga riassegnata da attività di produttività e occupazione inferiori a quelle più elevate, in particolare nelle regioni a stress idrico”.
L’istituzione propone soluzioni tecnologiche (sensori per calcolare l’umidità del suolo), politiche (gestione a livello locale delle risorse e della distribuzione), tecniche (manutenzione infrastrutture). A stento una menzione del climate change – un fattore come un altro insieme a crescita della popolazione e urbanizzazione – e soprattutto non una parola sulla più clamorosa delle inefficienze in agricoltura: quella che stiamo per vedere.
Qual è l’agricoltura che consuma più acqua
Quando diciamo che l’agricoltura consuma il 70% delle risorse d’acqua, diciamo una verità, ma fuorviante. Messa così, infatti, c’è poco da obiettare: agricoltura vuol dire cibo, mica possiamo tagliare questo tipo di impiego?
Dobbiamo però approfondire: che tipo di agricoltura? Quali colture? La stessa Banca Mondiale ci ricorda che le coltivazioni irrigate rappresentano solo il 20% delle terre coltivate. Quindi: il 70% dell’acqua non viene usata dalla “agricoltura” in generale, ma solo da alcune coltivazioni. Che sono in maggior parte le monocolture intensive di mais, soia e grano. Le quali poi, in gran parte, non servono a nutrire gli umani, ma gli animali: le bestie da allevamento industriale che solo in seconda battuta finiscono nel nostro piatto, in forma di bistecca.
Secondo il WWF, “circa il 50 per cento della terra abitabile del mondo è stata convertita in terreno agricolo”. Scrive il sito Onegreenplanet che il 33% dei terreni agricoli in tutto il mondo viene utilizzato esclusivamente per la produzione di mangimi per il bestiame. Stando al sito dell’USDA, il Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti, mais, orzo, avena e sorgo sono utilizzati come principali cereali per mangimi negli Stati Uniti, con il mais “che rappresenta oltre il 95% del totale dei cereali per mangimi e della produzione”. Negli Stati Uniti, il 36% delle colture di mais viene utilizzato per nutrire il bestiame. La soia è anche comunemente usata nei mangimi, con il 75% delle colture globali che viene somministrato al bestiame. Per sostenere queste colture, un terzo dei seminativi viene utilizzato per la produzione di mangimi a livello globale, utilizzando grandi quantità di terra e risorse idriche.
L’impronta idrica della bistecca
Secondo una recente ricerca citata da Greenpeace, la stragrande maggioranza della produzione agricola europea viene utilizzata per nutrire gli animali e creare biocarburanti, piuttosto che nutrire le persone. Allo stesso tempo, l’Europa sta sovraproducendo carne e prodotti lattiero-caseari, con la produzione UE di carne bovina, suina e pollame superiore rispettivamente del 4%, 16% e 8% rispetto al consumo, e la produzione di prodotti lattiero-caseari del 14% in più rispetto al consumo.
L’analisi ha rilevato che nel biennio 2018/2019, il 62% di tutte le colture di cereali è stato utilizzato per nutrire gli animali e il 12% utilizzato nell’industria e come biocarburante, con solo il 23% destinato a nutrire le persone. Inoltre un sorprendente 88% di soia, e il 53% di altri legumi ricchi di proteine, sono stati utilizzati per l’alimentazione animale.
Secondo il Water Footprint Network, progetto teso a tracciare l’impronta idrica di ciò che mangiamo, per produrre un chilo di carne di manzo ci vogliono 15.400 litri di acqua. È vero che esistono prodotti come il caffè o il cacao che hanno un’impronta idrica ancora più elevata, ma è anche vero che di cappuccini e cioccolata ne consumiamo in proporzione una percentuale irrisoria, qualche grammo rispetto ai chili di carne che facciamo fuori.
Tirando le somme, quindi, la maggior parte dell’acqua non finisce per dissetare (o lavare) noi, e nemmeno per irrigare le piante che ci nutrono, ma per dar da mangiare agli animali. Dove per animali non si intendono “i nostri amici a quattro zampe”, ma milioni di bestie incastrate come ingranaggi di un’enorme catena di montaggio industriale. L’ennesimo motivo – se non bastassero le ragioni etiche, quelle di salute, quelle relative alle emissioni di gas serra – che dovrebbe spingerci a rivedere profondamente il nostro sistema alimentare.