Ho letto le ultime pagine di Coltivare la natura di Giacomo Sartori qualche mese fa, seduto sulla panchina di un parco pubblico torinese, all’ombra di un albero: una situazione bucolica, ideale, direte voi. Peccato che quel giorno facevano trenta gradi, si boccheggiava dall’afa e io stavo in shorts e sandali; peccato soprattutto che fosse l’8 di ottobre, un momento in cui di solito in città ci sono 15 gradi in meno, e piove.
Coltivare la natura, che porta il sottotitolo Cibarsi nutrendo la terra, e ha la prefazione di Carlo Petrini, parla di agricoltura: anzi di agricolture. Di quanti e quali modi l’uomo ha usato e usa per ricavare il nutrimento dalla terra. Apparentemente non c’entra nulla con il riscaldamento globale, eppure era forte la sensazione che Sartori stesse parlando di ciò che stava succedendo a me in quel preciso momento, mentre sudavo da fermo e all’ombra, in pieno autunno nel nord Italia: poteva essere solo una suggestione da ansia climatica? In realtà trattando dei modi in cui si coltiva il suolo, il libro finisce per illustrare i tanti modi in cui è possibile creare uno squilibrio tra ciò che si prende e ciò che si restituisce (è letteralmente quello che si intende con l’abusata e ormai svuotata parola “sostenibilità”). I modi fantasiosi e perversi, apparentemente inevitabili e frutto del progresso, in cui prima lentamente e poi velocemente abbiamo devastato il pianeta. Perché quando si tratta di inquinamento ed emissioni noi (giustamente) ce la prendiamo con il petrolio, con le grandi industrie, ma il primo campo in cui abbiamo iniziato a distruggere un equilibrio, è stato proprio un campo di grano.
Coltivare la natura è un libro militante, ma non è un libro ideologico; così come il suo autore è un intellettuale impegnato, un attivista, ma non un invasato anti-scientifico. In parte raccoglie e armonizza testi già usciti su varie testate: Micromega, Nazione Indiana, lo stesso Dissapore (sul futuro dell’agricoltura, su biodinamico e biologico). Nella prima parte però traccia una Breve storia della fertilità che è qualcosa di commovente per completezza e chiarezza: l’unico modo per riprenderci da questa potente sbandata è infatti fare tabula rasa, ripartire dall’inizio per capire cosa è andato storto in questa storia. Ci sono troppe cose ovvie, banali, che però tendiamo a dimenticare: e Sartori ce le ricorda. Di seguito ne vediamo alcune.
1. La natura non esiste
Eh già: a proposito di bucolico. Cosa c’è di più umano, di più antropomorfo di un parco pubblico, di un campo di grano, ma anche di un bosco? Dice Sartori parlando della sua formazione di agronomo:
“Avevo poi appreso, più in generale, che la natura non esiste, perché noi facciamo parte integrante dell’ambiente del quale viviamo, e lo modifichiamo, lo abbiamo stravolto da tempi molto antichi, ben anteriori alla nascita dell’agricoltura. La natura è un concetto che ci siamo inventati molto di recente per sentirci separati dal marasma di altri esseri e studiarli con freddezza, che è pure lucidità e determinazione. Ma anche allora per avere le mani libere di distruggere i territori dove viviamo e di fare qualsiasi danno, nettandoci la coscienza salvaguardando alcune oasi assurte a prezioso feticcio”.
2. Coltivare significa togliere
C’è un peccato originale nell’agricoltura: essa, da sempre, spezza un circolo che fa sì che tutto resti nell’ambiente. Sembra banale, sembra persino stupido dirlo, ma spesso dimentichiamo che coltivare significa prendere qualcosa alla terra e portarla da qualche altra parte. Intendiamoci, non che sia possibile, o auspicabile, fare diversamente, però dobbiamo ricordarlo:
“I suoli naturali ricevono i resti delle piante dalle piante (foglie, rami, radici morte…), che sono degradati da batteri e funghi nei suoi strati superficiali, restituendo alle radici della nuova vegetazione gli elementi nutritivi dai quali sono composti. La materia organica non viene asportata dal sistema, che si tratti di un bosco temperato o di una steppa nordica, e quindi il bilancio resta in equilibrio. L’agricoltura consiste invece nel sottrarre sostanza vegetale (semi, frutti, foglie, steli, radici) che utilizziamo per nutrirci e vestirci o altri fini, per cui al terreno arriva una quantità minore di elementi, e quindi il bilancio diventa negativo. Più prodotti si asportano, più il bilancio è deficitario, più si protrae negli anni, maggiore è il deficit. I terreni, via via impoveriti di sostanza organica, cedono meno elementi alle colture, e peggiorano anche dal punto di vista fisico, diventando più compatti. In altre parole sono meno fertili”.
3. Una società di merda
La prima grande svolta – nella storia dell’agricoltura e nello sviluppo delle società moderne – si è avuta dopo l’anno Mille, grazie al circolo virtuoso instaurato tra coltivazioni e allevamento. Ovvero, grazie al letame.
“Ricco di elementi della fertilità, esso è un ottimo concime, che consente di ristabilire la disponibilità chimica. Al contempo è anche però un efficacissimo ‘ammendante’, perché ricrea le buone condizioni fisiche del suolo, vale a dire la sofficità e l’areazione. Lo sfruttamento agricolo, non solo impoverisce i terreni di elementi e di sostanza organica, ma peggiora anche le sue caratteristiche fisiche, compattandolo e diminuendone la porosità, e quindi l’areazione. Elementi che sono fondamentali per permette la vita delle radici e degli organismi del suolo. La maggiore disponibilità di foraggio, e la possibilità di trasportarlo, permetteva di allevare un numero più abbondante di bovini, che venivano appunto adibiti all’aratura e al tiro. Essi fornivano però anche latte e carne. E letame, che consentiva di innalzare la fertilità dei suoli.
Grazie a tali innovazioni le rese delle colture a ettaro hanno avuto un balzo, sostanzialmente raddoppiando. In realtà le singole tecnologie esistevano anche in precedenza separatamente, ma richiedevano, per essere avviate nel loro assieme, capitali e organizzazione. La produttività dell’agricoltura, più diversificata e ben superiore al passato, ha reso possibile e accompagnato il notevolissimo sviluppo demografico dei primi tre secoli del nuovo millennio, con le evoluzioni sociali, culturali e l’ondata architettonica (in particolare le cattedrali e i monasteri) che l’hanno accompagnata. Il grande sviluppo economico si basava a ben guardare sull’agricoltura, e questa aveva il suo punto di forza nel letame”.
4. Il bel paesaggio italiano è un bel problema
Ah le dolci colline toscane… che sono il risultato di un pesantissimo e pazientissimo intervento umano, a partire dall’anno mille. È stato uno dei primi guai, come spiega il libro:
“Ma era soprattutto nelle superfici collinari, ben più diffuse, che si eseguivano capillari e imponenti opere di sistemazione dei versanti, secondo vari modelli (a “cavalcapoggio”, a “girapoggio”…), accompagnate da fossi di vario tipo, finalizzate alla regimazione delle acque, a evitare lo scorrimento delle acque in superficie, responsabili dell’erosione idrica, e a ottenere campi regolari. Si trattava di veri e propri capolavori tecnici, notevolissimi anche esteticamente (“il bel paesaggio toscano”).
Dal punto di vista agronomico non si può non osservare che il problema del ripristino della fertilità in senso stretto, non ha un posto egualmente centrale. C’era in generale una grande attenzione alle lavorazioni dei terreni, ai tempi e alle modalità appropriate (arature…), ma quasi si trattasse solo di un problema di meccanica, senza considerare il contenuto di sostanza organica e le relazioni con le altre pratiche. E senza risolvere l’annoso squilibrio a favore dei cereali.
In altre parole, si investiva molto in lavori assai dispendiosi destinati a rendere coltivabili e a migliorare i terreni e le morfologie difficili, a risanare le zone problematiche (aree palustri, o con rischi di frana…), aumentandone notevolmente il valore, a deforestare ampie zone, mentre si curava meno la ricchezza dei suoli. Con investimenti ben meno onerosi, a cominciare da un maggiore spazio dato alle leguminose foraggere, viene da pensare a posteriori, si sarebbero potute aumentare le rese storicamente basse”.
5. L’agricoltura è più importante dell’industria
Attualmente l’agricoltura impiega poco più di un lavoratore su 4 in tutto il mondo e produce meno del 4,5% del PIL globale (insieme alla pesca e alla silvicoltura). Eppure, altra banalità che tendiamo a dimenticare, senza cibo neppure il più disicarnato startupper della Silicon Valley sopravviverebbe.
“Rivoluzione agraria e industrializzazione erano strettamente legate. Producendo come non era mai successo prima alimenti in notevole eccesso rispetto ai fabbisogno degli addetti al settore agricolo, la prima consentiva di ‘liberare’ la manodopera che la seconda impiegava. Grandi quantità di derrate in eccesso rispetto ai bisogni della sussistenza, che quindi potevano essere vendute e producevano capitali, i quali permettevano di investire nelle industrie nascenti. Ma anche che rappresentavano materie prime che venivano lavorate e trasformate dall’industria stessa (filati…).
‘Non esiste nella vita materiale dell’umanità progresso simile a questo’, riassumeva lo storico Marc Bloch. L’attuale schiacciante supremazia economica e commerciale dell’industria ci fa dimenticare che questa è nata dall’agricoltura, e che non può vivere, come non può farlo l’umanità, senza di essa. E questo anche se rappresenta una infima percentuale del reddito dei Paesi più avanzati”.
6. Che ne sai tu di un campo di guano
L’affascinante storia dell’agricoltura subisce un’accelerazione via l’altra. Dopo la suddetta prima rivoluzione agraria, è la volta dei fertilizzanti chimici. Peccato però che fin dagli albori ci fossero avvisaglie sull’esaurimento delle risorse, avvisaglie naturalmente inascoltate.
“L’Ottocento può essere considerato il periodo nel quale la chimica cominciò a prendere le redini dell’agronomia. Inizialmente come fertilizzanti chimici si utilizzavano i composti ottenuti da rocce che contenevano i tre principali elementi della fertilità: l’azoto, il fosforo e il potassio. I nitrati, in particolare, provenivano dalle miniere cilene (“nitro del Cile”), e i progressi dei trasporti marittimi li rendevano via via meno costosi. Per il fosforo si impiegavano inizialmente resti alimentari (ossa animali, lische di pesce) o minerali fosfatici (fosforiti), macinati molto finemente, vista la loro scarsa solubilità. Nel seno della cerchia degli agronomi dell’epoca la concimazione chimica provocava però aspri e lunghi dibattiti. (…)
In generale la concimazione chimica ebbe però solo una modesta diffusione nella seconda metà del secolo. E questo in particolare dopo che le riserve di guano, importato dal Sud America, e utilizzato nel corso di un trentennio (Cavour fu il primo a importarlo in Piemonte), si erano esaurite. Episodio che rappresenta un esempio di un fulmineo consumo di una risorsa non rinnovabile, la quale dava ottimi risultati come concime e come ammendante”.
7. L’uniformità delle colture è un guaio
Il problema della chimica è anche un’altro: si concentra sui minerali, che sono pochi e più o meno uguali dappertutto, e trascura la parte organica, la biologia (il suolo è pieno di piccolissimi animali, per non parlare dei batteri), che è altrettanto importante ed è diversa da luogo a luogo. Questo è uno dei motivi per cui l’uniformità della colture non ha senso.
“La focalizzazione sulla componente inorganica dei terreni, ignorando il ruolo fondamentale della sostanza organica in essi contenuta, è avvenuta sotto l’ombrello e per istigazione degli organi di ricerca e di assistenza tecnica. Più in generale si è verificata una cesura tra le pratiche agricole proposte, sostanzialmente identiche in ogni area, e le specificità dell’ambiente di ogni zona e azienda. Questo è tanto più evidente in Italia, con il suo intricatissimo mosaico di agrosistemi climaticamente ed ecologicamente assai differenti gli uni degli altri. La ricchezza della scuola agronomica italiana risiedeva per l’appunto nel sapiente adattamento, ottenuto attingendo ai saperi di tre continenti diversi, e adattandoli a condizioni tanto diversificate”.
8. Il futuro esiste, e può essere diverso
Tutto il discorso fatto finora però, come tutto il discorso storico che fa Sartori, non è la solita lamentazione sul progresso che ci ha portati al disastro attuale, con la conclusione che non c’è niente da fare, non c’è futuro. Anzi: storicizzare, rendersi conto che le cose cambiano, e sono sempre cambiate, ci deve far concludere che quella attuale è una fase che può essere superata; che non tutto quel che c’è di fondante nell’assetto attuale deve essere mantenuto in eterno; che non ha senso dire “si è sempre fatto così, non può essere altrimenti”. Le cose cambieranno comunque, ma solo se ne prendiamo atto cambieranno più in fretta, e per il meglio.
“L’utilizzo futuro dei concimi chimici appare molto problematico a causa degli impatti negativi sull’ambiente, e per la necessità di ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili, destinati peraltro a essere molto più costosi. Per quanto riguarda il fosforo, ci si scontra con la scarsità delle riserve fosfatiche, che si avviano all’estinzione. Per forza di cose si dovrà quindi ricercare metodi che assicurino un ripristino della fertilità senza dispendio di energia non rinnovabile e minimizzando le degradazioni. Certo non li si potranno abbandonare dall’oggi all’indomani, ma si dovrà pur sempre ridurre drasticamente il loro utilizzo, in modo più urgente dove sono presenti soluzioni alternative. E questo producendo sufficienti derrate alimentari per nutrire i 10 miliardi scarsi di esseri umani previsti per il 2050. Rifiutare di prendere atto di questo necessario passaggio molto delicato, come fa ora la maggior parte del mondo agricolo, non potrà che aggravare i problemi. Nei fatti le soluzioni occorrono subito, non devono consumare energie non rinnovabili, devono mirare a bilanci energetici favorevoli, mantenere la fertilità dei suoli, e adattarsi alle condizioni più disparate.
Di questa sfida colossale, visti gli attuali assetti e lo stato di degradazione della maggior parte dei suoli, le organizzazioni dell’agricoltura convenzionale e una grande parte del settore agronomico non hanno ancora preso atto. E men che meno lo stanno facendo i colossi dell’agrochimica. Per varie ragioni, i decisori tendono a assecondare questa negazione della realtà, anche se gli ecologi e gli esperti ambientali forniscono dati sempre più precisi e hanno posizioni molto nette in proposito. Per ora sembra delinearsi quindi un arroccamento sulle forme presenti di agricoltura industriale, con qualche miglioramento di facciata in senso ecologico, e con i prevedibili conflitti che ne conseguiranno per accaparrarsi le terre coltivabili più fertili, i combustibili fossili necessari per le coltivazioni e le riserve idriche. (…)
È evidente che l’unica via percorribile è quella di un incremento di specie diverse di leguminose, le quali forniscono anche ottimi cibi proteici per l’uomo (piselli, lenticchie, fagioli…). Diminuendo in parallelo i consumi e le produzioni di carne, che attualmente accaparrano il 70% delle terre agricole praticabili del Pianeta, e un terzo delle zone arabili. Ed eliminando in particolare le forme di allevamento che non permettano un trasferimento della fertilità ai seminativi. Perché gli animali, con i loro residui, resteranno inevitabilmente l’altro grande caposaldo. Si citano spesso le nuove tecnologie, sulle quali si fa affidamento per trovare soluzione ai problemi presenti, ma per quanto riguarda il ripristino e il mantenimento ella fertilità queste potranno costituire solo un supporto, e solo nei paesi più avanzati”.