Da qualsiasi punto si cominci a parlarne l’effetto è il medesimo: salivazione che assale senza possibilità di replica, memoria gustativa immediata, ricordi di assaggi e citazioni di stagionature.
Poco ci manca e abbracciamo una forma intera, compresa di casaro e vacca.
Oggetto di tanto amore incondizionato è una delle meraviglie del nostro patrimonio gastronomico, uno dei prodotti più imitati e copiati all’estero, il regale Parmigiano Reggiano.
Qualche istante di pausa prego, poi un inchino di fronte a sua maestà. La vedete anche voi la stola di ermellino attorno alla crosta? Temevo di essere la sola ad avere le allucinazioni.
Per raccontarlo, o quantomeno cercare di farvi da guida, partiamo dall’inizio: il territorio.
Zona di produzione
Bisogna imparare a memoria: siamo nei territori delle province di Parma, Modena, Reggio Emilia, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova alla destra del fiume Po.
Perché proprio qui? Cos’ha di speciale questo territorio, oltre alla erre arrotolata di Parma (si dice “uvulare”) e a un dialetto che fa da subito simpatia?
Per capirlo dobbiamo tornare indietro al XII secolo, perché la parte culturale serve e vi dona un tono da intellettuali del formaggio.
La pianura tra Parma e Reggio Emilia si rivelò particolarmente vocata all’allevamento di bovini: il merito va riconosciuto all’opera di bonifica dei terreni messa in atto dai monaci benedettini e cistercensi.
Utilizzate nei lavori agricoli, le vacche necessitavano però di strutture adeguate alla loro crescita. Nacquero così le grancie, prototipi di aziende agricole in cui all’allevamento si affiancava anche la produzione di latte.
Se qualcuno di voi ha studiato storia medievale si ricorderà che una delle ossessioni dell’uomo (gastronomico) dell’epoca era quella di conservare il cibo.
Sotto sale, affumicato, sotto aceto: l’importante era la possibilità di poterne disporre in un lungo arco di tempo. La vicinanza con le saline di Salsomaggiore e la conseguente disponibilità di sale diedero vita ad un formaggio stagionato, dalla forma molto grande e strategicamente conservabile, trasportabile (i monaci erano molto svegli in fatto di marketing e strategie commerciali) e vendibile.
Siamo stati fortunati: se non avessimo avuto le saline, saremmo qui a discutere di un formaggio insipido, affumicato e insapore.
Il caseus parmensis (così viene chiamato all’epoca) esce ben presto dai confini regionali e raggiunge Piemonte, Toscana e dal porto di Pisa, il Mediterraneo.
Dal Rinascimento in poi è quasi una passeggiata: alle abbazie si affiancano prima i feudi (aumentando così la produzione) e poi le vaccherie, strutture rette da commercianti-proprietari di vacche, che potremmo definire imprenditori agricoli, nelle quali all’allevamento si affiancava il caseificio.
Gli appassionati di cibo di allora preferivano le forme prodotte tra maggio e settembre, nelle quali le vacche si alimentavano nei pascoli, e che prendevano i nomi di maggengo e settembrino.
I soliti Benedettini portano il Parmigiano anche nella provincia di Modena e ben presto la commercializzazione raggiunge tutta l’Europa, arrivando in Germania, in Francia e nelle Fiandre.
E siccome ai tempi non andavano tanto per il sottile, una volta intuito che la fama avrebbe innescato confusione, tentativi di imitazione o contraffazione, il Duca di Parma ufficializza la denominazione d’origine.
7 agosto 1612 nasce così quella che oggi chiamiamo D.o.p, e che definisce i luoghi dai quali deve provenire il prodotto per potersi chiamare “di Parma”.
Come si fa – Le vacche, la lavorazione del latte e la stagionatura
Prima di arrivare al latte bisogna partire dalle vacche.
Andate a trovarle, le vacche, guardatele bene, passate un po’ di tempo con loro e ringraziatele.
Sappiate infatti che l’1 ed il 2 ottobre il Consorzio Parmigiano Reggiano apre le porte e le forme organizzando “Caseifici Aperti“: una cosa infatti è leggere un articolo, un’altra è vedere dal vivo i formaggi che stagionano, annusarli e assaggiare qualche scaglia di cotanta magnificenza (qui l’elenco completo dei caseifici).
Gran parte degli stabilimenti utilizza il latte delle Frisone, anche se la tradizione vorrebbe quello di capi di razza Reggiana, le Vacche Rosse.
Forse introdotte in Italia dai Longobardi, il loro latte ha una percentuale di caseina elevata e che si adatta meglio ad una stagionatura prolungata, motivo per cui il formaggio ricavato da Vacche Rosse non viene posto in commercio prima del 24° mese.
Cosa mangiano?
Il 50% della sostanza secca dei foraggi utilizzati deve essere prodotta sui terreni aziendali, purché posti all’interno del territorio di produzione del formaggio Parmigiano. Almeno il 75% della sostanza secca dei foraggi deve essere prodotta all’interno del territorio di produzione del formaggio (il 50% della sostanza secca dei foraggi giornalieri deve essere rappresentata da fieni).
Assolutamente vietato l’impiego di insilati, compresi i pastoni, foraggi riscaldati per fermentazione e foraggi trattati con additivi.
Il Parmigiano Reggiano si ottiene con il latte scremato della mungitura serale, ottenuto lasciando affiorare naturalmente la parte grassa, destinata alla produzione di burro, aggiunto al latte intero della mungitura del mattino.
Entrambi sono consegnati integri al caseificio entro due ore dalla fine di ciascuna mungitura (il latte può essere raffreddato immediatamente dopo la mungitura e conservato ad una temperatura non inferiore a 18ºC).
La miscela lattea viene versata nelle tipiche caldaie di rame a forma di campana rovesciata, dalle quali si otterranno fino a due forme per ciascuna: vengono quindi aggiunti il caglio di vitello e il siero innesto (coltura naturale di fermenti lattici ottenuta dall’acidificazione spontanea del siero residuo della lavorazione del giorno precedente).
Ha così avvio la coagulazione, la cagliata viene successivamente ridotta in piccoli granuli dal casaro, che utilizza un attrezzo chiamato spino.
Si passa, quindi, alla fase di cottura: lenta, che raggiunge i 55 °C.
Si lasciano poi sedimentare i granuli sul fondo della caldaia, in modo da ottenere una massa compatta. Il composto estratto viene tagliato in due parti, avvolto nella tela e immesso in una fascera dalla quale prenderà la forma ben nota.
Detta così sembra facile. Per darvi un’idea del lavoro ecco qualche numero: per ogni forma sono necessari circa 550 litri di latte, per produrre 1 kg di formaggio ne servono 14. Una forma pesa in media 40 kg.
Come per i neonati, anche i nostri Parmigiani, che al momento sono un po’ pallidini e timidi, necessitano di un nome.
Ed ecco allora l’assegnazione della placca di caseina con un numero unico e progressivo e la fascia marchiante con la quale vengono incisi sulla forma il mese e l’anno di produzione, il numero di matricola che contraddistingue il caseificio, e la scritta a puntini su tutta la circonferenza.
Se siete lì con la bocca spalancata dalla meraviglia, sappiate che siamo solo a metà strada.
La salatura, per osmosi, consiste nell’immersione delle forme in una soluzione salina. I futuri Parmigiani se ne stanno a bagno nel sale per poco meno di un mese.
Noi avremmo già le mani palmate, loro , invece, ne escono belli e rilassati, pronti per la stagionatura.
Disposti in fila, in lunghe tavole di legno, le forme riposano per almeno 12 mesi. A questo punto i nostri Parmigiani devono passare un “esame di maturità” conosciuta come espertizzazione.
Non è detto infatti che ogni forma sia idonea a diventare Parmigiano Reggiano Dop.
Il compito di valutare le forme spetta agli esperti del Consorzio: posto che gli strumenti utilizzati sembrano degli attrezzi di tortura di epoca medievale, sappiate che è grazie a queste operazioni piuttosto lunghe e minuziose che possiamo godere del nostro pezzo di formaggio perfetto.
L’esame prevede l’utilizzo di martelletto percussore, ago a vite e tassello (o sonda). Dopo una prima analisi visiva (che si concentra su crosta e conformità dei marchi), si procede con la battitura, percuotendo la forma.
Mentre probabilmente voi, continuando a battere e auscultare, non ne ricavereste un granché, l’esperto capisce e procede alla fase successiva, la spillatura. Estrae cioè una piccola quantità di pasta con l’ago, una specie di carotaggio insomma.
Dalla resistenza che la pasta oppone si traggono indicazioni sulla consistenza, si termina poi con l’esame della pasta estratta, del suo aroma e del grado di maturazione.
Dall’esame vengono identificate tre categorie di formaggio: Prima categoria, Parmigiano Reggiano. E’ quello che corrisponde appieno al disciplinare (che utilizza le diciture di “scelto”, “zero” e “uno”) e che prosegue la stagionatura. Ha il suo bel contrassegno di origine e il marchio ovale impresso a fuoco.
Seconda categoria: Parmigiano Reggiano Mezzano. Pur non avendo alterazioni delle caratteristiche organolettiche, presenta alcuni difetti nella struttura della pasta o sulla crosta. E’ adatto ad un consumo da tavola. Anche lui ha il suo bel marchio a fuoco, ma si distingue dalla prima scelta per i solchi paralleli tracciati sullo scalzo.
Terza categoria: scarto. Fessurazioni, occhiature, difetti olfattivi: queste ed altre caratteristiche non consentono l’apposizione del marchio Dop. La forma viene quindi dequalificata.
Carta di identità
Di fronte ad un controllo delle forze dell’ordine, quando ci vengono richieste patente, libretto, generalità e varie, in genere, s-i s-u-d-a. Anche se nella borsa si hanno delle aspirine.
Ebbene, le placide forme parmigiane affrontano controlli scrupolosi con calma olimpica. Ogni unità, poi, è come un libro. Basta sapere come leggerlo.
Abbiamo già imparato a riconoscere le forme di prima e seconda categoria. Se non avete voglia di imparare tutto il disciplinare, vi basti sapere che un Parmigiano Reggiano che si rispetti presenta queste caratteristiche: una forma cilindrica a scalzo leggermente convesso o quasi diritto, con facce piane leggermente orlate, del diametro che va dai 35 a 45 cm. L’altezza dello scalzo va da 20 a 26 cm, mentre il peso minimo di una forma è di 30 kg.
La crosta, dello spessore di circa 6 mm – ha colore paglierino naturale mentre quello della pasta – minutamente granulosa con frattura a scaglia – varia dal leggermente paglierino a paglierino. Aroma e sapore sono fragranti e delicati, saporiti ma non piccanti.
Sappiate però che l’età influisce sulle caratteristiche che abbiamo appena elencato. L’ultimo passaggio prima di addentare il nostro pezzo è questo: uno sguardo obbligatorio ai bollini di stagionatura.
Bollino aragosta: oltre 18 mesi di stagionatura. Le note di latte sono accentuate e si sentono anche quelle di erba (a volte anche di fiori).
Bollino argento: oltre 22 mesi di stagionatura. Aromi più accentuati, si sentono note di burro fuso e frutta fresca, oltre che di agrumi e cenni di frutta secca.
Dolce ma saporito, si presenta perfettamente solubile, friabile e granuloso.
Bollino oro: oltre 30 mesi di stagionatura (stravecchio). E’ il più ricco di elementi nutritivi, più asciutto, friabile e granuloso.
Ha sapore più deciso e complesso negli aromi, dove prevale la frutta secca.
Posto che ognuno sceglie a suo gusto, secondo gli esperti il formaggio deve passare due estati, deve subire cioè due anni di trasformazioni enzimatiche che ne cambiano la pasta e ne rendono il sapore più intenso, oltre a renderlo più digeribile di altri formaggi e a facilitare l’assorbimento dei grassi da parte dell’organismo.
Il picco di fragranza si raggiunge dai 24 ai 36 mesi, ma se amate i sapori forti sappiate che oltre i 40 mesi c’è tutto un campionario olfattivo e gustativo da esplorare.
Ho sentito racconti di forme a lunghissima stagionatura (guardate il video di come si apre una forma, è magnetico) che una volta tagliate hanno perfino emesso un sibilo.
Giuro.
[Crediti | Link: Consorzio Parmigiano Reggiano | Foto e video: Consorzio Parmigiano Reggiano]