La lista di cibi che mio padre non mangia è molto lunga. Essa include (tra gli altri): pomodori, peperoni, formaggi (Grana Padano o Parmigiano Reggiano, tassativamente non fusi, fanno eccezione), latte, panna e vino rosso, che lo sgomenta a tal punto da non riuscire nemmeno a servirlo ai commensali. Gran parte dei bambini attraversa una fase difficile rispetto al cibo, perlopiù tra i 2 e i 5 anni. Esiste una spiegazione evolutiva: con il raffinarsi delle abilità motorie, il bambino è più autonomo e perdere l’istinto di mangiare volentieri qualunque cosa lo protegge da potenziali avvelenamenti accidentali. Quasi tutti superano questa fase con l’adolescenza, ad alcuni invece non succede mai. Perché?
Il sentire comune è che si tratti soprattutto di una questione di educazione alimentare: ai bambini piacciono istintivamente i sapori semplici – in particolare il dolce e il salato -, sono i genitori a dover proporre una varietà ampia di alimenti differenti, invitandoli a fare esperienze nuove.
Questo è indubbiamente vero, ma non è tutta la storia.
Gli “schifiltosi” o – come dicono gli inglesi, con un termine più neutro – i “picky eaters” sono recentemente diventati oggetto di diversi studi. Una ricerca pubblicata sul American Journal of Clinical Nutrition e ripresa dal New York Times sostiene che l’influenza ambientale (ovvero, i genitori) abbia un ruolo molto limitato, mentre a fare la parte del leone sarebbe la genetica.
Su Internet esistono gruppi di supporto, come questo che ha più di 1400 membri, per persone la cui vita è resa complicata da questa condizione: nei casi più gravi – spiega il testo introduttivo del sito – esistono persone che mangiano solo “una cosa o due”.
Una dieta così limitata interferisce inevitabilmente con le relazioni interpersonali: gli “schifiltosi” guardano con terrore alle occasioni sociali in cui si debba mangiare con altri e cercano di evitarle il più possibile. Inoltre, sebbene non siano esposti agli stessi gravi rischi di salute connessi a disordini alimentari come anoressia e bulimia, una dieta ristretta porta con sé il rischio di carenze nutrizionali.
Le università di Duke e di Pittsburgh hanno creato un elenco pubblico online, al quale chiunque può accedere per inserire la descrizione delle proprie idiosincrasie alimentari. I ricercatori sperano così di individuare dei fattori comuni o un modello che aiuti a capire meglio il disturbo e, possibilmente, a trovare una cura. Alcuni fattori comuni sembrano esistere in molti “picky eaters”: spesso è la consistenza (cibi unti, viscidi o grumosi) ad essere un problema, piuttosto che il sapore; e, a quanto pare, le patatine fritte piacciono a tutti [sic].
Dalla mia prospettiva di paladina del politically correct sarò ben contenta di poter dire a mio padre che non è colpa sua se davvero non può sopportare l’idea di mangiare un’infinità di cose: è solo un picky eater patologico, insomma uno schifiltopatico. Qualcun altro si riconosce in questa diagnosi?
[Fonti: New York Times, Pickyeatingadults.com, Duke University]