La Carbonara migliore di Roma si mangia da Roscioli (voi sapete che ho ragione ma non volete arrendervi, non volete darmela vinta). Parlo della Salumeria Roscioli, a via dei Giubbonari, quella che vi strema l’appetito già da fuori con la vetrina: prosciutti interi, salmoni selvaggi affumicati dall’Alaska, formaggi, un’infilata di vini da vertigini.
Qualcuno pensa che cenare in un negozio di alimentari, scuro come un quadro di Caravaggio e in una certa misura decadente sia una soluzione bizzarra. Prima cenate da Roscioli poi ne riparliamo.
La salumeria è l’atto secondo dei Roscioli nella capitale, la cui storia inizia nel 1972 con l’acquisto del forno di Via dei Chiavari, lì vicino.
Tracciare l’identikit del Forno Roscioli? Molto semplice per i romani: quello che con l’odore di pane appena sfornato profuma tutta Campo de’ Fiori già alle 5 del mattino.
Tracciare l’identikit della famiglia Roscioli oggi? Facile anche questo: quattro generazioni di una stirpe partita da 11 fratelli marchigiani, che a parte le panetterie di piazza Vittorio (specializzata in pizza e mortadella o pizza con la porchetta) e sulla Tuscolana, vi intrappola subdolamente in una specie di triangolo della tentazione:
vertice alto il FORNO
lato sinistro la SALUMERIA
lato destro il CAFFE’ a Largo Benedetto Cairoli.
(E per il momento silenzio sulla champagneria “Bolla su Bolla”).
Forno Roscioli (VERTICE ALTO)
Nel tempio di Pierluigi Roscioli gli habitué praticano il culto dell’inarrivabile Panettone del panettiere: lievitazione naturale e pochi aromi. Si trova anche fuori stagione.
Pane, panini, rustici, piatti pronti e un angolo dedicato a salumi e vino: il forno è un piccolo mondo autosufficiente.
Dagli spazi ormai angusti del laboratorio escono 15 quintali di pane al giorno, incluso il celebrato pane in cassetta fatto negli stampi americani portati 60 anni fa dal mitico zio Franco.
Due i lieviti utilizzati: uno a ph costante per il pano bianco, l’altro acido, ricavato dall’acqua delle patate, per il pane rustico. Alcune pagnotte, anche integrali, sono piccoli capolavori: alveoli uniformi e ben distribuiti, croste croccanti, mollica umida e pastosa.
Salumeria Roscioli (LATO SINISTRO)
Aperta nel 1991, si trasforma per diventare ristorante nel 2002. La carbonara come detto è la migliore di Roma (c’è pure in versione da asporto, un kit per il gourmet smaliziano e fashion-victim composto da pasta Verrigni, uova di Paolo Parisi, guanciale fresco messo sottovuoto, pepe di Sarawak e pecorino romano Dop).
Oggi è un lungo cunicolo infarcito di prelibatezze dove senza prenotazione non mangi, e qualche fortunato ordina al telefono bottiglie da 5.000 euro.
Per fare qualche numero: enoteca da sogno con 2.500 etichette, 300 formaggi diversi, 100 varietà di salumi e un centinaio di conserve. “Che all’inizio comprava soltanto Stefano Bonilli”, si schernisce Alessandro Roscioli parlando del compianto ex direttore del Gambero Rosso, che aveva eletto la salumeria a propria residenza privata.
Solo prodotti di grandi artigiani italiani e non, un modello che ricorda le famose gastronomie metropolitane come Dean & DeLuca a New York. Anche nei prezzi non esattamente per tutti.
Caffè Roscioli (LATO DESTRO)
Il locale si sviluppa in lunghezza diviso tra zona giorno e sala interna, anticipato dalla solita vetrina killer traboccante lievitati, stavolta, in arrivo dal laboratorio retrostante. Tipiche pastarelle romane come gli irresistibili maritozzi alla panna e offerta salata con panini e sandwich.
Entro e chiedo un caffè. “Quale?”, mi sento rispondere?
I Roscioli si sono dotati di una macchina doppiometodo in grado di gestire miscele diverse, dunque con temperature e pressioni differenti. In pratica, riuniti nel corpo unico della macchina (ce ne sono 5 al mondo) si trovano un blocco a pompa napoletana manuale e l’altro a pompa volumetrica.
Niente male l’offerta dei caffè. La rotazione propone miscele diverse in base alle stagioni, spiccano quelle di Gianni Frasi, specie il Caffè delle Terre Alte di Huehuetenango, Presìdio Slow Food del Guatemala.
Giusta attenzione anche per il mondo del caffè filtro con miscele a tostature diverse e la presenza del V60, lo strumento a forma di “V” con un’ampiezza angolare di 60° (da cui il nome) che distilla il caffè attraverso un filtro di carta precedentemente inumidito.
Protagonista della sala interna, defilata rispetto ai ritmi della caffetteria, è il tavolo sociale da 8-10 persone utilizzato per cene private, degustazioni, soprattutto per l’aperitivo. Vini, salumi, ostriche della Normandia, formaggi tipici, frutti di mare, taglieri e tramezzini.
Per me Club sandwich e Bloody Mary, grazie. (Qui si prepara con pomodori confit e con il fondo bruno che s’impara nella prima lezione di ogni corso di cucina. E’ strano, pungente, saporito).
Potrei chiudere la giornata in gloria degustando champagne alla mescita o una birra artigianale da Bolla su Bolla, la “champagneria conviviale” e temporanea (chiude il 1° settembre) aperta dai fratelli Roscioli in Piazza di Montevecchio, poco distante da Piazza Navona. Magari aiutandomi con un crudo di pesce.
Potrei, ma anche alla resistenza di un assaggiatore impunito come me c’è un limite. Poi dovrei riscrivere tutto il post parlando di quadrilatero tentatore. E non mi sembra il caso.