Falsi d’autore. Nel variegato mondo dell’arte esiste anche questo.
Creazioni che non solo si rifanno, ma riproducono minuziosamente ogni minimo dettaglio dell’opera cui si ispirano, con un tale livello di perfezione da diventare opere d’arte autonome, pur dichiarandosi apertamente delle “semplici” copie e non nascondendo, anzi, quasi ostentando, l’autore dell’opera madre da cui sono state tratte.
E questo accade anche per ciò che ormai, a certi livelli, alcuni si ostinano a definire una forma di arte: il cibo.
Per questo “In situ”, il nuovo ristorante americano di Corey Lee (di cui trattano ampiamente New York Times e San Francisco Chronicle) è collocato proprio in uno spazio all’interno del maggior museo di arte moderna e contemporanea di tutta la costa occidentale degli Stati Uniti, il MOMA di San Francisco.
Solo qui il cibo poteva godere di tanta considerazione artistica da essere degno di generare addirittura dei facsimile, delle vere “copie d’autore”.
Infatti, nell’avvenirisitico ristorante di Lee (già proprietario di Benu, tre stelle Michelin ancora a San Francisco), chef la cui esperienza si è formata in Francia e in alcuni rispettabilissimi ristoranti americani, nessuno dei piatti proposti è proprio, originario del cuoco.
Invece, tutti quelli presenti nei due menu degustazione (Lounge Menu e Dinner Menu) sono esatte riproduzioni di piatti dei più famosi chef internazionali, eseguiti fedelmente e proposti ai clienti smaniosi di gustare in loco, o meglio, in situ, grandi piatti della cucina internazionale.
Naturalmente, tutto alla luce del sole e in modo perfettamente trasparente.
I piatti –o meglio le opere– nel menu, sono frutto della collaborazione tra il personale del ristorante e nomi quali Massimo Bottura | Osteria Francescana (Oops! Mi è caduta la crostata al limone); Rene Redzepi | Noma (Acetosella e yogurt di pecora), Christian Puglisi | Relæ (Sandwich alla lattuga), Pascal Barbot | Astrance (Croque Astrance), Virgilio Martinez | Central (Polpo e corallo), Mauro Colagreco | Mirazur (The Forest), Andoni Luis Aduriz | Mugaritz (Interpretazione della vanità) tanto per citarne alcuni.
Gli chef scelgono personalmente i piatti che verranno replicati e proposti da Lee, in una collaborazione che sfocia a volte in vere trasvolate oceaniche da parte dei cuochi di In Situ nonché dell’executive chef Brandon Rodgers, per apprendere trucchi e segreti dei piatti poi preparati nel ristorante.
Nel menu figurano piatti come gli shrimp grits, gamberi sminuzzati e cotti con mais disidrato molto simili agli originali serviti da Wylie Dufresne al wd-50 di New York fino al 2014, anno in cui il ristorante newyorkese è stato chiuso ed i famosi gamberetti sono entrati a fare parte del menù “In situ”.
Oppure la riproduzione del piatto “La Foresta” in carta al Mirazur, ristorante di Mentone, in Costa Azzurra, dove lo chef Mauro Colagreco tende a riprodurre un paesaggio naturale, in una composizione con funghi selvatici, steli di erba verde e fiori rosa di pisello su cui è stato adagiato un risotto di quinoa, che raffigura idealmente una foresta, e dove ciuffi di muschio sono rappresentatati da succo di prezzemolo, tutto impreziosito da spuma di burro e parmigiano.
O ancora piatti relativi alla vita sottomarina, con craker di riso contornati da cialde di albumi e calamari, e un polpo ben nascosto all’interno, piatto ispirato dal ristorante di Virgilio Martinez a Lima, “Octopus and the Coral”.
E venendo ai dessert il piatto a base di yogurt al latte di pecora e granita di foglie di acetosella, che ci trasporta nelle atmosfere norvegesi del Noma di Rene Redzepi.
O l’interpretazione della Vanità, una torta al cioccolato con crema di mandorle fredda e bolle al cacao dello chef spagnolo Andoni Luis Aduriz.
Piatti come arte, quindi, ma anche come comodità: molte persone infatti, pur essendo interessate alla cucina internazionale e in costante aggiornamento grazie a giornali e riviste specializzati, non si sognerebbero mai di prendere un aereo da San Francisco per andare fino nella lontana Danimarca solo per gustare un piatto di Renè Redzepi al Noma di Copenhagen, oppure a Tokyo, per gustare i piatti del RyuGin.
Molti non possono, o semplicemente non vogliono. Non vogliono spendere centinaia di dollari o euro per un solo, singolo pasto, per quanto eccelso: recandosi a “In situ”, invece, potranno avere l’ebrezza di gustare i piatti dei migliori chef a prezzi che spesso rimangono inferiori ai trenta dollari.
Un greatest hits spettacolare, una compilation a prezzi accessibili con i nomi più belli della 50 Best Restaurant e i nuovi piatti annunciati dal profilo Instagram del ristorante.
“La faccenda è – dice Lee – che c’è sempre un maggiore interesse verso il cibo, oggi rappresenta una fetta consistente della nostra cultura”. Infatti, “In situ” non è un semplice portale che ci introduce alla cultura dei cibi di Copenhagen o di Tokyo, ma è un portale verso la cultura del cibo stesso”.
Curiosa anche la scelta del nome del locale. “In situ”, infatti, in latino, indica qualcosa di collocato e circoscritto, di delimitato, di definito con precisione.
Proprio il contrario di ciò che accade nel ristorante. I piatti, infatti, sono decontestualizzati, perdono la connotazione originaria, geografica, tipica, arrivando a essere semplici parole stampate su un foglio di carta, astratti, come un’opera d’arte moderna.
Ovviamente, non mancano le perplessità: quale sensazione può produrre un piatto tipico, specifico di un territorio quando viene sradicato dalle sue origini e dal suo contesto?
O più prosaicamente, quale sensazione può suscitare la degustazione di un raffinato piatto di Hisato Nakahigashi quando sradicato dal ritmo di un pasto copleto al Miyamasou , nelle affascinanti montagne sopra Kyoto?
Come può uno stufato dello chef Sean Brock, così strettamente legato alla storia del sud America, essere pienamente apprezzato al di fuori del territorio di Charleston?
Ma soprattutto, come porsi dinanzi a piatti che, nella loro versione originale necessitano di ingredienti tipici e locali, quali il gelato al burro salato di Esben Holmboe Bang del Maaemo di Oslo, se il burro usato poi nella versione proposta da In Situ non proviene poi da autentiche mucche norvegesi?
“Certo, non sarà la stessa cosa – spiega Lee – ma il piatto rimanderà comunque alle influenze della preparazione originaria. Questo è ciò che conta; comprendere l’intento, l’essenza di un piatto”.
E se qualcuno, nonostante tutti gli sforzi, la cura e l’attenzione posta nel riprodurre fedelmente un piatto e la sua atmosfere, se ne uscisse con la prevedibile obiezione “sì, certo, il piatto era molto gradevole, ma io continuo a preferire l’originale”?
“Semplicemente, non starebbero comprendendo il nostro obiettivo – continua Lee -. Noi non stiamo proponendo una semplice esperienza ristorativa, speriamo invece di riuscire ad offre una vera e propria esperienza culturale all’interno del NOMA”.
Cibo come cultura quindi. La vera arte del nostro tempo.
[Crediti | Link: New York Times, San Francisco Chronicle]