“Amo cucinare, mi diverto a inventare i menù, vado volentieri al mercato la mattina presto per scegliere i ravanelli più freschi e sono contento di ospitare a casa mia persone sconosciute per chiacchierare davanti a un piatto di tagliatelle calde preparate da me, scambiare idee, conoscersi e passare una serata in allegria.
Per me, l’home restaurant è solo un hobby”.
Questo sostiene come un sol uomo il piccolo esercito dei cuochi casalinghi italiani (7000 solo nel 2014), sulla recente proposta di legge –per il momento approvata dalla Camera e ora al vaglio del Senato– che vuole regolamentare la controversa attività di “home restaurant” o meglio, come l’Accademia della Crusca ha precisato in questi giorni bacchettando la diffusa consuetudine di utilizzare nomi stranieri, di “ristorazione domestica”.
Una legge che ha scatenato i mugugni di molti cuochi amatoriali, che ne contestano ogni punto, a iniziare dall’obbligo di impiego delle piattaforme digitali – colpevoli di disincentivare mamme, nonne e zie poco avvezze alla tecnologia– al pagamento attraverso mezzi elettronici ma, soprattutto in relazione al limite annuale dei 5.000 euro e dei 500 pasti annuali, oltre i quali l’attività di home restaurant non può più essere considerata occasionale.
Proprio la soglia dei 5.000 euro annuali –oltre i quali scatta anche l’obbligo di iscrizione alla gestione previdenziale– è stata aspramente criticata dai cuochi dilettanti, a dimostrazione del fatto che i “modesti compensi” percepiti finora devono invece essere stati di tutto rispetto, per un semplice “hobby”.
Ma se 5.000 euro l’anno sono considerati dai cuochi amatoriali una cifra così irrisoria, se le norme previste dalla nuova legge sono considerate “un ostacolo e un impedimento al fiorire di una nuova, dinamica attività e di un nuovo interessante settore economico”, perché ci si ostina a considerarlo un semplice hobby e non una vera attività professionale, adeguatamente remunerata?
Un buon numero di noi ha un hobby, ma ben pochi ricavano 5000 euro l’anno per la vendita occasionale ad amici e parenti dei propri acquerelli o delle proprie sculture in legno.
Il motivo che ci spinge a svolgere una determinata attività, inoltre, sia il piacere o sia il bisogno, non ha alcun peso nella classificazione di un reddito ai fini di legge.
Così come non ha importanza il fatto che la sede di lavoro sia la propria abitazione e non un laboratorio preposto o una cucina professionale, nel momento in cui viene percepito un regolare compenso.
Chiamiamo le cose con il loro nome: svolgo un’attività in modo continuativo e regolare, per piacere o per necessità, senza vincolo di subordinazione verso il committente, e ne ricavo anche una giusta entrata, nell’ordine di alcune migliaia di euro annuali.
Questo, in diritto, è chiamato lavoro autonomo, non occasionale, e prevede una disciplina specifica in termini fiscali, legislativi contributivi, nonché conoscenze di base certificate su materie prime, igiene, attrezzature e idoneità dei locali.
Una disciplina che ristoratori e operatori “non occasionali” –la bieca “lobby dei ristoratori” che tanto impazza di questi tempi sui media– sono tenuti rigidamente a osservare e da cui, invece, i ristoratori casalinghi vorrebbero essere esclusi: d’altronde, è solo un “hobby”.