“Indovina indovinello: chi è il genio che strappa cosce ai piccioni vivi e chi è quell’altro genio che ne scrive serenamente, come fosse la raccolta della camomilla? Per la serie: andate a lavorare in miniera invece di cercare pubblicità così“.
Non vi diremo chi è il genio che strappa cosce ai piccioni vivi (bugià, è David Muñoz da Madrid, stando al parere esagerato di qualcuno “lo chef migliore d’Europa”). Così come non vi diremo nemmeno chi è quell’altro che ne “scrive serenamente” (altra bugia, è Federico Ferrero da Masterchef 3, ormai l’unico critico gastronomico –sembra– di cui valga la pena leggere le recensioni, specie quando sono stroncature).
Il primo perché conosciamo poco Dabiz, come vuol essere chiamato David Muñoz, e non siamo mai stati al Diverxo, il suo ristorante aperto nella capitale spagnola nel 2007, tre stelle Michelin conquistate a un ritmo impressionante: la prima a 29 anni, la seconda a 31, la terza a 33.
Il secondo perché ne abbiamo parlato molto, sempre ironicamente o sarcasticamente, certo, ma con la dovuta dose di simpatia e stima che molti forse non hanno colto.
Tuttavia, nonostante avessimo deciso di mollare la presa, l’assist delle sopra ricordate cosce era troppo ghiotto, troppo succoso per ignorare pure quello.
Infatti, conosciamo bene chi si è scagliato con tanto sdegno contro i presunti sezionatori di piccioni vivi: Paolo Marchi.
Conoscete tutti, no? No, non è il Presidente della Lega per la protezione delle cosce di piccione vive o delle ali di fagiano felici, no. Lui è l’ideatore, il patron di Identità Golose, uno dei più importanti eventi nostrani del food.
Giornalista sportivo in origine, ha poi annusato l’aria –o meglio l’odore di arrosto– che tirava attorno al mondo del cibo, ha capito il trend, fiutato l’affare e si è abilmente rigenerato, passando dal sano sport all’insano sollazzo mangereccio. Ora è uno dei critici di food di maggior peso in Italia.
Che si è provvidenzialmente stizzito per la nuova recensione del talentouso critico italiano che ultimamente si sta distinguendo per le argute e sapide critiche fuori dal coro, fuori dall’ossequio e dal lecchinaggio allo chef stellato di turno.
E cosa ha fatto, dove è andato il nostro giovane e apprezzato critico per scatenare l’intervento di cotanto rappresentante del mondo eno-gastronomico?
Questa volta è addirittura capitato sul set di Eyes wide shut a sua insaputa!
Dopo essere stato preso a pesci in faccia da una parte e servito senza emozioni dall’altra, ha pensato bene, sulla scia di tanta benevola popolarità, di abbandonare i patri lidi e recarsi temporeamente in terra spagnola, a recensire un altro ristorante stellato.
Così che il nostro è approdato proprio al DiverXo, il ristorante dove “persino i reali di Spagna sono stati messi in lista d’attesa”. E nel particolare locale spagnolo dove la parola d’ordine è “stupire o morte!”, ogni più ardita previsione del nostro recensore non si sarebbe neanche avvicinata a quello a cui sarebbe poi stato sottoposto.
Innanzi tutto, appena lo vedono, pensano bene di farlo entrare dal camerino di servizio, anzi, come lui stesso scrive, dal “sordido stanzino del lavapiatti, ingolfato di stoviglie, e alla cucina disordinata, stipata all’inverosimile di pentole, cuochi, e fumo denso”. Giusto per farlo entrare nel clima del locale.
Dopodiché viene introdotto in un ambiente che veramente il set del film di Kubrick in confronto è il ridente pascolo alpino del pastorello amico di Heidi: enormi porci con le ali pendono dal soffitto, mentre stuoli di nere farfalle lo guardano sinistre e minacciose da muri e corridoi.
Rinchiuso poi nell’oscurità di una specie di camerino con la sola luce di candela, ben nascosto agli altri avventori (bontà del ristoratore) da spesse coltri di velluto rosso, il nostro viene avvicinato da una sinistra cameriera “dal frac nero, e dalle labbra dipinte del medesimo rosso acceso delle scarpe da ginnastica” che subito gioca d’attacco e, per impedirgli di far sfoggio della sua rinomata favella, gli infila letteralmente in gola e “ con rudezza”, dell’alcool ghiacciato, salvandosi.
Dopodiché, abile e veloce, finisce di stordirlo prendendolo letteralmente per il naso, mettendogli cioè sotto lo stesso “una Guacamole di pomodorino, finocchio e avocado, con polpo di scoglio cotto a vapore e midollo di vitello”: uno a zero per la cameriera al servizio di David Muñoz.
Ma a questo punto, non si sa bene se per effetto del guacamole o di quale altra sostanza, inizia il delirio, letteralmente, o meglio la visione di un filmato propiziatorio.
Racconta il promettente critico: “All’improvviso si accendono le luci, quattro mani impacchettano le tende e svelano gli altri commensali. Le coppie sorprese in intimità si ricompongono di fretta, la musica sale a volume altissimo, stordente, e appaiono camerieri che saltano nudi sui tavoli, spingendo il cibo a forza nella bocca dei clienti, attraverso un imbuto d’oro.
(…) Una coscia di piccione viene staccata da un animale vivo e cotta su braci ardenti, direttamente nel piatto.
È uno scambio continuo di sedie tra vecchi, giovani, uomini, donne, grassi, magri, in una girandola di baci sottolineata dal lancio di uova crude. Un proiettore ripete sul soffitto il filmato di una telecamera che, dai bagni, rimanda le immagini di chi vomita nel lavello…”.
Ferrero, praticamente, essendo capitato in un ristorante il cui primo obiettivo è stupire a tutti i costi (come dichiara già dal nome), oltre che a servire ottimi piatti che il nostro elogia prontamente, racconta semplicemente di un filmato, una breve proiezione a cui i clienti dell’originale ristorante sono stati sottoposti, filmato che comprendeva, oltre al passaggio incriminato della coscia e relativo piccione, anche i problemi di stomaco, e relativa liberazione, di un avventore che aveva mangiato un po’ troppo pesante.
Roba così, per stupire, una trovata pubblicitaria, un’operazione di marketing, nulla più: infatti, il filmato si presenta come un semplice contorno per creare un’atmosfera torbida, particolare, originale, insomma, per distinguere in qualche modo il locale dalla massa degli altri stellati.
Tutto qui. Un film.
Oltretutto, il nostro giovine ma per nulla sprovveduto recensore, in mezzo a tutto questo macello (cinematografo), in tutto questo torbido (virtuale) , in tutta questa lussuria (e qui non si sa), non perde né il lume della ragione né l’obiettività.
Benché tramortito dalla visione del raffinato filmato e dal trattamento del personale di sala, riesce comunque a notare, per esempio, “qualche ditata di troppo che accompagna i piatti e alcune inceppature nel servizio”, ma soprattutto a non farsi distrarre più di tanto da abili mosse volte a stupire.
Rimane cioè lucido, obiettivo e razionale e perfettamente in grado di valutare quello che gli sta accadendo intorno senza farsi distrarre da filmati grossolani o abili ambientazioni.
Obiettività e razionalità che altri, invece, sembrerebbero aver perso anche solo leggendo il resoconto di una banale, per quanto cruenta, visione cinematografica.
Perché ora, il nostro giovane e talentuoso recensore, è diventato come il povero piccione: fa visibilità, fa like. E allora, battiamo il ferro finché è caldo. Tutti.
[Crediti | Link: La Stampa, Dissapore]