Abito in una città –-Torino-– in cui stanno aprendo un sacco di belle novità.
Cannavacciuolo. I Costardi. Lavazza-Adrià-Zanasi. Tesse. Sforza… Decine, decine di locali appena varati, da chi ha ambizioni siderali a chi punta al modello bistrot. E tanti di ottima qualità.
Quando capito a Milano: quante belle cose fresche di vernice. Che festa. E sta per arrivare Cracco.
Finisco a Roma: finalmente! La capitale si sta finalmente svegliando, con numerosissime destinazioni brand-new.
E Palermo? E’ arrivata la modernità, ecco i posti smart. Lo stesso a Napoli. A Bologna…
Figata. Bello. Totale.
Ma una domanda sorge spontanea:
CHI DIAVOLO RIEMPIRÅ TUTTI QUESTI LOCALI?
Come diamine è possibile che a questa esplosione dell’offerta corrisponda un tale, mastodontico aumento dei clienti?
Perché il rischio è sotto gli occhi di tutti: se i golosi sono sempre gli stessi (peraltro, Italia esclusa, in tutta Europa i pasti fuori casa stanno diminuendo), un coperto in più in un posto nuovo significa uno in meno da qualche altra parte.
Io un pezzo di risposta ce l’ho: non l’unica, ma tanta benzina per in nuovi ristoranti sono i turisti. Quelli che fanno sì che a Londra un musical vada in scena per vent’anni con due repliche al giorno: se contasse sui londinesi, anche sugli inglesi, non durerebbe più di un mese.
Ancora meglio se sono turisti gastronomici, naturalmente.
Ma noi abbiamo messo il carro davanti ai buoi: non stiamo aprendo più locali perché ci sono più turisti; stiamo aprendo più locali perché sembra l’investimento del momento, a prescindere, per mancanza di alternative.
Allora ci dobbiamo muovere ad attirarli, questi turisti.
Per tornare a Torino, la mia città ha 900mila abitanti e nel 2006 ha avuto 5 milioni di turisti. Figata. Tanti. Tutti a complimentarsi.
Ricordo il former sindaco Fassino che disse: “più di così cosa dobbiamo fare?” Barcellona ha 1,6 milioni di abitanti e nel 2016 ha avuto… quanti turisti? 32 milioni.
C’è da lavorare. Uh, se c’è da lavorare.