Eccoci ridotti alla stregua di scolaretti a cui vengono requisite le figurine dei calciatori.
Anche noi adulti, infatti, abbiamo le nostre figurine e la nostra maestra della penna rossa, pronta a requisirle non appena ne scambiamo una sotto il banco durante la lezione.
Ma le nostre figurine hanno le fattezze di uno smartphone, il banco di scuola si è trasformato nel tavolo del ristorante mentre al posto della maestrina c’è il ristoratore che si è messo pure a fare il censore di costumi.
Dilaga infatti la moda di cui Italo Pedroni fu l’illuminato precursore (e di cui Dissapore vi ha già parlato), requisire in modo più o meno assoluto a seconda del locale la nostra appendice multimediale, col nobile intento di arginare la mania di controllo ossessivo-compulsivo di tablet o smartphone in tutti momenti della giornata, fermi al semaforo e anche seduti in un ristorante, mania detta anche “phubbing”.
E sulla scia dell’Osteria di Rubbiara, primo ristorante in cui, nei primi anni ’90 proprio Italo Pedroni aveva inaugurato la simpatica usanza di far lasciare ai clienti il proprio cellulare all’entrata, in una graziosa cassettina con tanto di lucchetto, per apprezzare meglio la frittata all’aceto balsamico o il pollo al lambrusco, molti altri locali in tutto il mondo hanno poi aderito alla moda dello “stop phubbing”.
Il Bedivere di Beirut, in Libano, che accompagna la gentile richiesta con uno sconto del 10% sul conto di chi aderisce, oppure, tornando in Italia, il Refettorio Simplicitas, singolare locale nel centro di Milano dove il telefonino non è vietato del tutto ma il silenzio è d’obbligo, con tanto di misuratore di decibel e campanella nel caso si voglia richiedere ancor più silenzio.
E ora la moda del disinquinamento tecnologico è approdata anche all’Hamburgheria di Eataly a Torino: chi riesce a lasciare il cellulare nella black phone box alla cassa per tutto il pasto avrà il dolce in omaggio.
E tutto questo perché pare che chef e ristoratori, nella loro ulteriore veste di predicatori e fustigatori di biechi costumi asociali, trovino disdicevole che non si gustino appieno i loro ingredienti selezionati, i loro piatti e l’impegno profuso nella preparazione.
Come anche il fatto di trascurare il nostro prossimo, seduto accanto nello stesso tavolo.
Per quanto lodevoli e originali possano risultare queste iniziative, ci si chiede se veramente ce ne sia bisogno, o meglio, se veramente abbiamo bisogno di un tutor-ristoratore che ci indichi la retta via per la semplice durata di un pasto, sottraendoci ai nostri vizi multimediali giusto il tempo di un brasato al barolo sapendo benissimo che, varcata la porta del locale, torneremo bellamente alle nostre usuali attività, phubbing compreso.
Ci si chiede però che senso abbia questa dieta detox e a che cosa serva: un po’ come le domeniche del pedone in cui i cittadini sono obbligati a lasciare la macchina parcheggiata per il giorno festivo tornando a riprenderla e ad intasare l’aria di fumi per i restanti sei giorni della settimana.
Insomma, questa crociata di alcuni ristoratori pare l’ennesima trovata pubblicitaria per far parlare di sé, per avere pubblicità e visibilità facile, spacciandoci dei normalissimi –e legittimi, sia ben chiaro– interessi commerciali per nobili intenti etico-moralistici.
Ma soprattutto contribuendo, con la loro singolare iniziativa, ad alimentare quel mondo social e multimediale dal quale, a parole, vorrebbero disintossicarci.
[Crediti | Link: Dissapore, Corriere]