Qualcuno si è preso la briga, ieri, di definire sobriamente l’intervista che state per leggere “un siluro senza precedenti alla ristorazione“. Data al mensile GQ da Jonathan Nossiter, americano, 50 anni, regista e sommelier, uno con la vocazione per i famosi 15 minuti warholiani già fruiti nel 2009 con Mondovino, atto d’accusa sul mondo del vino candidato alla Palma d’oro a Cannes, prende di mira più che altro i ristoranti di Roma, il loro rapporto contronatura con i prezzi del vino, gonfiati fino al 1200%. A tutela di alcuni ristoratori romani, dei loro residui scampoli di fegato, si conviene che certi passaggi sono arditi.
Sui ristoranti romani:
“A Roma (ma quasi ovunque in Italia) se entrate da sprovveduti in un ristorante — che sia un tempio dell’haute cuisine o una semplice trattoria — quasi certamente vi serviranno del vino dal sovraprezzo esorbitante, oppure tossico, o che tradisce la propria identità storica (se non tutti e 3 insieme)”.
Sulla popolare trattoria Felice al Testaccio:
“La trattoria romana Felice al Testaccio rappresenta un perfetto caso di studio. Il Gambero Rosso, come le altre guide, lo considera ‘una delle più affidabili cucine romanesche, autentica come l’ironia sorniona dei camerieri’. Ma che dire della lista dei vini, un massiccio e decrepito raccoglitore di fogli di carta infilati nella plastica? Nell’elenco predominano cantine industriali o semi-industriali di tutte le principali regioni d’Italia: non certo i vini peggiori, ma poco artigianali o autentici”.
E ancora:
“Avendo consumato da Felice un pasto che sapeva di totale indifferenza, ci sono tornato per capire quella lista dei vini grossa e flaccida. In uno scambio degno dei primi film di Benigni, ho domandato al responsabile alla cassa perché non avessero vini naturali nella lista. Si è stretto nelle spalle: ‘Non ci interessa, ma non sono io che mi occupo dei vini’. ‘Chi, allora?’, ho chiesto. ‘Un ragazzo, Maurizio’. ‘C’è?’. ‘No, non c’è. Viene solo alcune mattine, ma non è lui che sceglie, le compra soltanto’. ‘Chi le sceglie?’. ‘L’enoteca che ce li vende’. ‘E come si chiama l’enoteca?’. ‘Non lo so’. Per un ristorante, lasciare che a scegliere i vini sia un’enoteca con le sue ‘considerazioni commerciali’ è come delegare a uno sconosciuto la scelta delle proprie pratiche sessuali. L’autenticità dell’emozione è la stessa che ci si può attendere, per esempio, dalle signore di un’agenzia pugliese di escort”.
Sul ristorante Convivio – Trojani:
A Roma c’è un locale che è stato un punto di riferimento negli anni del bunga bunga. Si chiama Il Convivio e ha una lista dei vini con ricarichi che farebbero inorgoglire qualsiasi tangentomane. Molti vini costano al bicchiere più di quanto il ristorante abbia pagato la bottiglia: un sovrapprezzo del 1200% . Che dire, per esempio di un bicchiere di Verdicchio Garofoli, semi-industriale, a 14 euro? In tutto il mondo è considerato ragionevole un ricarico del 250%, anche se in Italia e Francia data la vicinanza delle cantine, i ristoranti più etici, come il Consorzio di Torino, scendono al 50%. Al Convivio invece, si trovano i vini più comuni, come il Gavi La Scolca, a prezzi da infarto: 51 euro per una bottiglia che ne costa 7 (ricarico del 700%). Il supertuscan Masseto 1995 a 8.300 euro, un Pommerol Petrus del 1979? 6.480 euro.
Sul ristorante San Lorenzo:
“Il San Lorenzo è un ristorante molto frequentato dai parlamentari di spirito più moderno. La lista dei vini costituisce un passo avanti rispetto al Convivio: selezione eclettica; molte etichette convenzionali ma anche vini naturali e artigianali. Che piacere trovare il Trebbiano d’Abruzzo di Emidio Pepe. Però è uno choc ritrovarsi a pagare 64 euro per un vino che ne costa 13 in cantina. Chi può distinguere allora nella lista del San Lorenzo tra uno Chardonnay (26 euro contro 5 in cantina), uno Syrah (80 euro contro 19 in cantina) e etichette più impegnate? Una lista dei vini, specie in un ristorante dove si pagano 4 euro a testa per il pane e 20 per una porzione ridotta di spaghetti con una (?) acciuga poco distinguibile dovrenne mostrare un minimo di coerenza”.
Su Casal del Giglio, azienda laziale che produce vino:
“E’ un’azienda nella quale si usano sostanze chimiche tossiche per qualsiasi cosa vivente ma che dice di essere ecocompatibile per confondere chi non è informato. Il giovane sommelier Francesco Romanazzi dell’Enoteca Bulzoni (per me la migliore di Roma) spiega: ‘Se vedi Casal del Giglio sulla carta di un ristorante, puoi essere sicuro che ci sono considerazioni commerciali. I romani lo comprano, lo bevono e lo amano perché rappresenta una certa sicurezza, come votare Pdl. Ma Casal del Giglio è un tradimento, un vino palesemente industriale, tecnico e ruffiano, fatto nel posto meno vocato al vino del mondo, lo so bene, i miei genitori ci abitano’.”
Questo è quanto, ebbene, siete d’accordo su quel “siluro senza precedenti alla ristorazione”?
[Crediti | Link: Il Gastronauta, Wikipedia. Immagine: GQ]