Normalmente, il cinema sarebbe fatto di conflitti. Non importa che questi siano enormi (“il mondo è in pericolo!”) o minimalisti, ma ci deve essere qualcosa che non funziona, in modo da far emergere la vera natura dei personaggi e mostrare come se la cavano in situazioni di difficoltà. D’altronde, che gusto ci sarebbe a vedere una pellicola in cui sostanzialmente va tutto bene e in cui ogni piccolo problema viene risolto… senza essere veramente affrontato?
Julie & Julia è invece proprio questo tipo di film, in cui la maggiore tensione di un personaggio è sulle percentuali da offrire a una sua collega per un lavoro, mentre l’altro affronta una crisi personale che ovviamente però si risolve in fretta (anche se non si capisce bene perché si risolve). Stupisce, in questo senso, che Nora Ephron, un tempo sceneggiatrice di ruoli femminili memorabili come quelli di Silkwood e Harry, ti presento Sally, non riesca a dar vita a dei personaggi e a una storia più avvincente di così. D’altronde, se il momento nettamente più divertente del film dipende da uno spezzone di un noto programma televisivo, siamo veramente nei guai.
Il problema però non è soltanto in fase di script. Meryl Streep si prenderà sicuramente la sua sedicesima nomination, considerando quanto all’Academy piacciano le imitazioni. Certo, la Child sarà anche stata come viene descritta, tutta smorfiette e vocine ridicole, ma è difficile appassionarsi a un personaggio così limitato e che non sembra prendere niente sul serio. Molto meglio, in questo senso, la prova di Amy Adams, ma siamo nel campo di Una notte al museo 2, ossia di un’attrice straordinaria (per chi scrive la migliore della sua generazione) che deve sopravvivere a una pellicola (e, in questo caso, anche un ruolo) mediocre.
Va a finire che, come capita spesso, ringrazi il cielo che ci sia Stanley Tucci, in grado di essere apprezzato anche se deve fare da spalla, peraltro in una situazione in cui non fa altro che ripetere a sua moglie quanto la ama. Insomma, va benissimo che ci siano film tutti al femminile come questo (e i risultati statunitensi dimostrano quanto sia una buona idea di controprogrammazione in un’estate piena di blockbuster), ma è troppo chiedere qualcosina in più?
In effetti, per quanto possa sembrare ‘blasfemo’ dirlo, a me sembra che manchi il cibo. Intendiamoci prima che qualcuno chiami la neuro per farmi ricoverare, di ricette/piatti/ingredienti se ne vedono fin troppi (e da questo momento ho quasi la nausea a utilizzare/mangiare cose con il burro dopo aver visto l’abuso trainspottinghiano che se ne fa nel film). Il punto è che manca l’emozione che dovrebbe dare il cibo, qualsiasi cosa si voglia esprimere. Se penso a un film ruffianissimo come Chocolat, è comunque impossibile negare che la sensualità del cioccolato non venga espressa in maniera chiarissima e convincente (basti ricordare il momento di ‘follia’ finale del sindaco). Ne Il pranzo di Babette (racconto di Karen Blixen e film di Gabriel Axel che sia) la sfilata conclusiva di piatti non era certo una pura esibizione, ma esprimeva il modo in cui un personaggio ritrovava la propria identità grazie all’arte culinaria. E non parliamo della potenza espressiva del cibo in due film diversissimi come La grande abbuffata o Ratatouille.
Qui invece si passa da un piatto all’altro anche in maniera vorticosa, ma senza riuscire a esprimere cosa questo significhi per i personaggi. Ci viene detto diverse volte che Julia Child ha cambiato l’atteggiamento degli americani nei confronti del cibo, ma questo non ci viene mai mostrato veramente sullo schermo. E i miglioramenti di Julie Powell nel suo percorso culinario e di vita sembrano dati per scontati, piuttosto che affrontati direttamente.
Si ha insomma l’impressione che le due Julie/a avrebbero potuto essere appassionate di basket, di orologi a cucù o di libri rari, senza che per questo sarebbe cambiato qualcosa. D’altronde, si tratta di una pellicola che vuole essere quanto più possibile blanda e inoffensiva, quindi perché mettersi ad approfondire troppo? L’obiettivo, in questo senso, è pienamente riuscito…
ColinMcKenzie è il responsabile del sito Bad Taste insieme a Andrea Berni.
Immagini: New York Times