La notizia era nell’aria da un po’, è appena stata ufficializzata e probabilmente state leggendo questo post perché l’avete inserita come chiave di ricerca su Google: Massimo Bottura ha preso, finalmente, la terza stella Michelin (motivazione ufficiale: “Se la sobria raffinatezza della sala da pranzo ricorda un’elegante semplicità francescana, tutte le tracce di un’osteria sono diventate un lontano ricordo grazie alle creazioni intellettuali dello chef, profeta di una cucina d’avant-garde e concettualmente innovativa che evoca ricordi d’infanzia e sapori modenesi”). Per la prima volta in Italia, uno chef primeggia nelle graduatorie delle tre principali guide: il Gambero Rosso gli assegna 95 punti, ben tre in più dell’anno scorso, mentre l’Espresso ha ribadito la sua idea che la perfezione non è di questo mondo, confermando il punteggio di 19,75 ventesimi creato ad hoc nell’edizione 2011. A ciò si aggiunga che non solo l’Osteria Francescana è quarta nella classifica dei S.Pellegrino World’s 50 Best Restaurants, ascoltata da chi è avanti come fosse l’Oracolo di Delfi, ma è stata eletta dai colleghi il miglior ristorante al mondo.
Ma chi è Massimo Bottura, e perché tutti impazziscono per lui? Perché la sua cucina e il suo ristorante sono il punto di riferimento del gastrofanatico dei nostri tempi?
La storia inizia nel 1986, quando un ventiquattrenne Bottura, che mai aveva frequentato un corso di cucina professionale, e figuriamoci uno di management della ristorazione, tornando a casa una sera vede un cartello “VENDESI” su una trattoria a Nonantola che si rivelerà la sua personale mela di Newton, e senza pensarci troppo rileva la Trattoria del Campazzo. Per i primi tempi si fa aiutare dalla madre in cucina, poi apprende in breve tempo la cucina tradizionale dalla rezdora Livia Cristoni e quella internazionale da George Cogny, grande chef francese, allora a Piacenza. Non passa molto tempo perché il giovane chef si faccia notare, e oggi avere mangiato al Campazzo in quei tempi eroici è un po’ come avere visto i Beatles ad Amburgo. Anche perché un sacco di quelle persone non avrebbero immaginato cosa sarebbe accaduto negli anni successivi.
E quello che accade è che nel 1992 Bottura viene notato dall’aristochef Alain Ducasse e invitato ad affinare la sua arte al Louis XV di Montecarlo, cosa che fa a più riprese fino al 1994. L’anno dopo perfeziona la seconda discesa in campo e rileva l’Osteria Francescana di via Stella, in pieno centro a Modena.
Da lì il decollo, e dopo l’esperienza a Roses nel ristorante di Ferran Adrià, altro suo grande estimatore, i riconoscimenti arrivano copiosi: le prime due stelle Michelin nel 2002 e 2006, Tre Forchette del Gambero Rosso nel 2007 e un’impennata nei giudizi dell’Espresso fino a livelli mai toccati prima. Ultima a salire sul carro è stata proprio la World’s 50 Best, dove però nel 2009 la sua è la più alta nuova entrata direttamente al tredicesimo posto.
Ho fatto poco sopra un paragone con i Beatles e beh, a pensarci bene, se togliamo l’aura di sacralità che gravita intorno all’alta ristorazione ci accorgiamo che la cucina di Bottura è proprio come la musica dei Beatles. La critica “alta” lo considera un pilastro della storia della sua arte, la quale può essere letta a più livelli offrendo continui spunti di interesse, ma chi, anche neofita, si approcciasse a lui senza pregiudizi scoprirebbe una cucina piena di armonie perfettamente comprensibili, nonostante la grande complessità che hanno dietro. Pare oltretutto che alcuni teorici della cospirazione abbiano ordinato il suo menu degustazione partendo dal dessert, alla ricerca di messaggi satanici (no, non davvero).
Lo chef padroneggia una grande tecnica, ma non la usa mai a sproposito e soprattutto conserva un fortissimo legame con il territorio, i suoi piatti e le sue materie prime, così intimo da essere più eccezione che regola in un mondo in cui le soluzioni dell’alta cucina tendono a convergere verso l’alto.
Tortellini? Check, chiedere a Barack Obama. Mortadella? Check, diventa spuma e prende il volo nel “Ricordo di un panino alla mortadella”. Parmigiano? Check, celebrato in una monografia che ne declina cinque consistenze in altrettante stagionature. Bollito? Check, con il celebre “bollito non bollito”, esaltazione della cottura sottovuoto a bassa temperatura. L’anguilla, per antonomasia il pesce che i grandi chef NON vogliono cucinare? Check, qui risale il Po laccandosi di mosto cotto, accompagnata da crema di polenta e concentrato di mele, in un piatto che va provato per essere creduto, infinito ottovolante di sapori.
Materia prima e tecnica non si escludono mai, comunicano, flirtano e infine si amano: la sensazione pittorica è quella di un Picasso che, lo hai sempre presente, può fare arte figurativa quando e come vuole, perché padroneggia anche quella.
Altro carattere distintivo della cucina di Bottura è un uso piuttosto parsimonioso, e mai fine a se stesso, di materie prime di lusso, che nell’alta ristorazione occupano un ruolo importante e vengono in genere trattate con un certo rispetto. Qui c’è una patata che, riempiendosi di crema, avrebbe voluto diventare tartufo, dessert che ridefinisce il concetto di dolce non dolce. Il foie gras diventa pop art in un croccante, ricoperto di mandorle e nocciole con aceto balsamico tradizionale, esperienza ludica sia per il palato (giochi continui fra aromi, sapori, consistenze che si interfacciano) sia per le memorie bambine che, come con la spuma di mortadella, riaffiorano liete. E ancora il caviale, una presenza discreta, numero 10 che torna a prendere la palla nella sua metà campo, in un sublime spaghetto alla chitarra con fondo di calamari e gelo di limone.
Insomma, Bottura è lo chef dei nostri tempi per antonomasia perché è tradizionale e moderno, tecnico e passionale, sbalordisce con la creatività e con il gusto, ha menu degustazione che spaziano dal totalmente rassicurante alla fantasia al potere, ed è in grado di far emozionare tutta la sua clientela, dal foodie che lo reverisce come una rockstar all’industrialotto dalle tasche piene e dai gusti un po’ rozzi, magari un po’ meno rozzi dopo ogni pasto. Passando per un sacco di gente normale che tira un po’ la cinghia risparmiando in vista di un’esperienza gastronomica memorabile.
Ma le stelle non si danno solo a uno chef, bensì all’intero ristorante, e l’Osteria Francescana rispecchia in ogni suo aspetto l’imprinting della sua mano motrice. I locali –che hanno beneficiato di una recentissima ristrutturazione dell’ingresso e prevedono ampliamenti di cucina e cantina- sono l’antitesi del lusso ingessato comune a molti ristoranti con due o tre stelle in giro per il mondo: arredi e mise en place hanno la raffinatezza delle cose belle dei nostri tempi, il fascino discreto dell’elegante e pulito, e l’occhio allenato coglie qua e là pezzi di storia del design contemporaneo. Tra sala e cantina si muove come un pesce nell’acqua il formidabile Beppe Palmieri, che risponde all’identikit di sommelier moderno non estremista. Padroneggia la conoscenza dei vini del territorio, dei grandi classici di Italia e Francia, dei vignaioli emergenti; ha nel cuore i vini biologici e biodinamici, ma ne fa una questione di gusto e tipicità piuttosto che di ideologia; mostra e dimostra una grande sensibilità nell’abbinamento delle birre artigianali all’alta cucina, e mettendo insieme questo popò di portafoglio di capacità realizza sul momento percorsi di degustazione impeccabili e stimolanti, con un occhio al prezzo, il che che non guasta mai.
Ma alla fine, chi è Massimo Bottura, il Bottura uomo? Lo vedi e ti sembra un’immagine coerente: ha il physique du role di un creativo geniale e funzionante, un uomo dei nostri tempi che non ha mai perso, ma ha anzi affinato, la capacità di ascoltare, per cui i grandi risultati raggiunti sono traguardi intermedi, stimoli ulteriori, trampolini per nuove avventure, tanto celebrato quanto pronto a confrontarsi e interagire con chi dentro sta tremando per l’emozione. Bottura è lo chef che, appena eletto dai suoi pari il migliore al mondo, è venuto a cucinare alla festa di Dissapore, a sei mani con i Fooders. E mangiare all’Osteria Francescana è un’esperienza da provare o riprovare con mano, occhi, palato, cervello e cuore.
[Crediti | Link: Dissapore, Osteria Francescana. Immagini: Monica Assari, foto e illustrazioni: Gianfranco LoCascio]