Confessate. Anche voi, ferventi sostenitori del “piccolo è bello“, classica espressione dello sgamatone che guarda sottecchi ogni produttore con più di due punti vendita, avete ceduto al freddo fascino di Alice Pizza.
Anche solo perché è comodo, il meno peggio del centro commerciale (sempre meglio che lasciare 20 euro al Tex-Mex fissando il cartonato di una mucca sorridente).
E a qualcuno tra voi dev’essere pure piaciuto.
Altrimenti non si spiegherebbe il successo, toccabile con mano vista l’espansione selvaggia, del franchising della pizza al taglio, “tradizionale e a lenta lievitazione” che oggi ha 91 punti vendita (a marzo di due anni fa erano 42, per dire).
Più di 1000 sono gli operatori coinvolti nel franchising, con una rete indotta che sviluppa altrettanti posti di lavoro e un fatturato di circa 65.000.000 di €.
Tutto è nato nel 1990, dal negozio di Roma in Via delle Grazie, tutt’ora in attività, da un’idea di Domenico Giovannini.
Da allora per l’impresa specializzata in pizza al taglio, in teglia e venduta a peso, ci sono state l’espansione negli snodi strategici della capitale, la registrazione del marchio e la cessione della licenza d’uso alla Me & Alice s.r.l., che gestisce il franchising.
Da un pezzo non è più soltanto la catena romana di pizza al taglio, bensì un’icona italiana di “artigianalità standardizzata“, anche all’estero.
Un paradosso bello e buono, se volete. Ma tant’è: gli impasti vengono preparati in loco e le farciture rivendicano il Km zero.
Intendiamoci, non esistono regole codificate per giudicare la pizza al trancio “tradizionale”, per stabilire la differenza tra un prodotto interamente artigianale e uno “standardizzato” usiamo un criterio soggettivo, il nostro gusto.
Ma di “standardizzato” da Alice Pizza c’è soprattutto il know-how: chi vuole aprire una succursale segue i corsi di formazione dell’Alice Academy di Roma e in pochi mesi diventa pizzaiolo e imprenditore della pizza gourmet.
E può farlo chiunque.
Nel 2014 il responsabile sviluppo del marchio, Fabio Posca, aveva dichiarato al Gambero Rosso: “Per superare la fase di ammissione chiediamo un po’ di esperienza. Requisito che passa in secondo piano se a emergere è una forte motivazione”.
Il risultato?
Il prodotto “artigianale” meno personalizzato possibile (insomma, imparano tutti a fare la stessa cosa) per quanto le farciture, i cosiddetti topping, siano discreti e gli ingredienti provengano effettivamente dal territorio limitrofo.
Le farine sono quelle del Mulino Orvieto, rispettabili ma niente più, così come lo standard degli impasti. E’ una pizza discreta, sostanzialmente “alla romana”: bassa, con pochi alveoli (i buchi nell’impasto), abbastanza asciutta.
Con il problema di diventare “gommosa” via via che si raffredda, rivelando così qualche problema con l’assai strombazzata “lunga lievitazione!
Come hanno pensato di compensare l’uniformità delle basi quelli di Alice Pizza? Con un’infinità di gusti, continuamente aggiornati.
E’ quasi impossibile identificare Alice Pizza con un abbinamento di sapori ben preciso: si prende quello che c’è, possibilmente appena sfornato, tentando di evitare l’onnipresente pizza con le patate, che alza il prezzo per ovvi motivi legati al peso.
Un tentativo di sviare il poco gradito “effetto catena” è la presenza delle birre di produzione locale.
Quanto ai prezzi, beh, sono piuttosto alti: la marinara a 13 euro e mezzo supera quella di Gabriele Bonci, che a quanto pare ha tenuto corsi per Alice Academy, benché il paragone per fragranza e sapore del pomodoro, sia a tutto vantaggio del celebre pizzaiolo romano.
Ma diteci voi, in Alice Pizza, precisamente, cosa ci trovate?
[Crediti | Link: Dissapore, Gambero Rosso]