C’è il grano duro, quello usato per la pasta, che si coltiva soprattutto nelle regioni meridionali: 49 milioni sono i quintali prodotti ogni anno in Italia su 1,3 milioni di ettari.
C’è poi il grano tenero, quello del pane e dei biscotti. Se ne coltivano 600 mila ettari, con una produzione che supera i 30 milioni di quintali.
Alessandria e Bologna sono le province italiane che producono più grano tenero, logico dunque che proprio dalla città piemontese parta la cosiddetta “battaglia del grano”.
La faccenda è questa: se il prezzo del grano è praticamente lo stesso di trent’anni fa, ovvero 14 euro al quintale, perché il pane, anche se il consumatore non se ne accorge, costa il 1450% in più?
Perché in altre parole servono trenta chili di grano per arrivare alla quotazione di un chilo di pane?
Lo ha denunciato ieri Roberto Paravidino, il presidente di Coldiretti Alessandria: in pratica i prezzi che spuntano le aziende agricole vendendo il grano non coprono più i costi e le spingono alla chiusura.
Nonostante la buona annata, con qualità e rese maggiori del 2015, visto che noi italiani siamo non solo i primi produttori, ma anche i primi consumatori al mondo di pasta non riusciamo a coprire l’intero fabbisogno nazionale: ogni anno importiamo 23 milioni di quintali di grano duro e 48milioni di tenero, soprattutto da Ucraina e Turchia.
La conseguenza sarebbe un problema di tracciabilità, con i produttori di casa nostra che agitano lo spettro dei controlli sanitari insufficienti, sia nei Paesi di origine che nei porti italiani di arrivo.
Sempre stando ai produttori, a ostacolare un più adeguato prezzo di vendita del grano, c’è anche un problema legato alla speculazione: molto spesso le grandi aziende stoccano per 2 o 3 anni grossi quantitativi di grano, per immetterlo sul mercato non appena le quotazioni risalgono.
[Crediti | Link: La Stampa]