Alcuni dei marchi di pasta più amati dai gourmet sono prodotti lontano da Napoli. Felicetti a Predazzo (TN), Latini a Osimo (AN), Benedetto Cavalieri a Maglie (LE), Verrigni a Roseto (Te). Ma sappiamo che in origine, cioè nel Settecento, la pasta veniva prodotta soprattutto a Napoli, Torre Annunziata, Castellamare di Stabia e Gragnano, con pastifici che utilizzavano giganteschi torchi per maccheroni e vermicelli.
Questa industrializzazione mutò la fama dei napoletani. Se fino a tutto il Seicento erano noti consumatori di broccoli e cavoli (“foglie”), ragion per cui la moltitudine di lazzari (lazzaroni, straccioni) della città veniva definita “mangiafoglie” o “cacafoglie, nel Settecento erano detti “mangiamaccheroni” o semplicemente “maccheroni”.
L’aumento della coltivazione del grano, il progresso tecnologico nella fabbricazione e il conseguente abbassamento del costo della pasta, la resero accessibile anche ai miserabili. “Quando un lazzarone ha guadagnato le quattro o cinque monete che gli bastano per comprarsi i maccheroni, non si preoccupa più del denaro e smette di lavorare,” scrisse il conte d’Espinchal. “Una delle scene di strada più note d’Europa diventò quella di uomini vestiti di stracci, con la testa gettata all’indietro e la bocca spalancata come uccellini appena nati, intenti a cacciarsi in gola maccheroni appena acquistati da un venditore ambulante, col suo bravo calderone bollente”.
Lo racconta John Dickie in Con gusto: storia degli italiani a tavola (Laterza). Nella trasformazione da mangiafoglie a mangiamaccheroni, Dickie vede uno dei più grandi snodi nella storia dell’alimentazione italiana. A quei tempi Napoli era la città più popolosa del Paese, con 400.000 abitanti, ed era una tappa fondamentale del Grand Tour. Tra il 1770 e il 1780 il Vesuvio eruttò otto volte, il che ne fece la meta più spettacolare ed eccitante d’Italia.
Non erano solo i lazzari a cibarsi di pasta: il re Ferdinando IV Borbone, figlio di Don Carlos e detto “Re Lazzarone”, era noto per la sua passione per i maccheroni. Un viaggiatore inglese lo descrisse così: “Li afferrava tra le dita, torcendoli e stiracchiandoli, e poi infilandoseli voracemente in bocca, disdegnando con la massima magnanimità l’uso di coltelli, forchette o cucchiai, o qualsiasi altro strumento eccettuati quelli che la natura gli ha messo a disposizione. Questa esibizione, devo confessarlo, mi ha sorpreso più di qualsiasi altra cosa abbia mai visto, tanto in un re quanto in un suddito”.
Due secoli dopo, possiamo dire che se i piemontesi si sono annessi il Sud creando la nazione che oggi è la nostra patria, il Sud si è annesso i nostri gusti alimentari, ci ha mangiato tutti, a forza di piatti di pasta.
[Crediti | Dalla rubrica “Cibo e Oltre” di Camilla Baresani su Sette, inserto del Corriere della Sera. Immagine: eppha]