Quando si trasloca dal nord Italia, o meglio da Cremona, forse il punto più pianeggiante della pianura padana, al Centro, più precisamente in quell’angolo di pre-appennino che è Arezzo, oltre alle pendenze si cambiano inevitabilmente le abitudini alimentari.
Niente da dire sulla qualità del cibo, sul piacere della convivialità e del buon vivere, aspetti connaturati a questa bella parte di Toscana; quel che però mi stupisce ancora, dopo un anno che sono qui, è il diverso significato attribuito alle parole… una sensazione da “lost in translation”.
L’esempio più scioccante per me è il prosciutto.
La parola “prosciutto” in Toscana acquisisce spessore… in senso letterale.
Il prosciutto di Parma, tagliato con l’affettatrice in fette sottili, dal sapore dolce e delicato, che a casa si mangiava una volta ogni tanto per la gioia dei miei fratelli, è stato rimpiazzato da quello del Pratomagno, decisamente salato e pepato, tagliato rigorosamente al coltello in fette del peso di circa un etto l’una, e che qui riescono a infilare praticamente in tutti i pasti e in ogni stagione, per la “gioia”… dei poveri maiali.
I cambiamenti però non riguardano solo la corrispondenza tra il nome e l’oggetto, ma anche le dosi.
L’olio crudo, che da noi si usa giusto per condire l’insalata, non manca mai sulla tavola di un toscano che si rispetti e viene aggiunto, in quantità più che abbondante, a ogni pietanza, indipendentemente dal fatto che questa sia già condita… un “filo d’olio” (espressione da intendersi alla maniera di Vissani, nel senso di cascate del Niagara) “un’ si nega mai”.
Il passaggio al Centro implica poi un cambiamento totale del concetto di “merenda“; al nord è associato a yogurt, merendine, frutta e, più in generale, a qualcosa più da bambini che da grandi; al centro la “merenda” è una cosa serissima, da (stomaci) grandi e, specie nelle domeniche di bel tempo in compagnia degli amici, un vero pasto a base di schiacciate, porchetta, prosciutti, salame e formaggio (qui sinonimo di pecorino) e, casomai, un po’ di frutta, proposta per lo più in abbinamento al formaggio.
In tutto ciò, non posso negarlo, mi capita di sentirmi un po’ “straniera”, un po’ “lost”… L’olio mi piace ma con misura, il prosciutto lo mangio in proporzioni del tutto diverse da chi mi sta intorno (a una fetta di prosciutto sta una fetta di pane, e non in proporzione di 3 a 1), la porchetta invece.. proprio la detesto!
Ma come convivere al meglio con tradizioni alimentari così diverse? Come riuscire ad apprezzare la cucina locale senza mortificare troppo le proprie abitudini? Senza perdere la bussola?
La soluzione è stata individuare il mio “comfort food”, quel piatto che mi fa sentire a casa, che appaga il mio gusto perchè richiama sapori abituali e che migliora la mia autostima perchè lascia gli “autoctoni” attoniti e letteralmente a bocca aperta: il risotto.
D’inverno e di nuovo in queste sere di inizio autunno è diventata una coccola ricorrente, con zucchine e zafferano, radicchio e taleggio, porcini e camembert, vino rosso al profumo di rosmarino… Il risotto mi riporta alla tavola di casa, a quella cucina da “ostrogoti” (come mi apostrofano qui quando rendo palese l’odio per la porchetta) che ha definito senza possibilità di smarrimento, la conformazione della mie papille gustative.
E voi, autoctoni o ostrogoti, comunque traslocati, in cosa trovate il vostro “comfort food”?
[Crediti | Immagine: Luxirare]