La buona educazione a tavola. Durante la seconda metà del sedicesimo secolo il bon ton a tavola è stato codificato da Monsignor Giovanni Della Casa in un manuale che le mamme dovrebbero leggere ai bambini al posto delle favole: il Galateo. Nel tempo le rigide norme si sono ammorbidite e oggi, a casa, o in un ritrovo mangereccio informale, tendiamo a sorvolare sulle inflessibili prescrizioni del Monsignore.
Epperò, alcune delle regole a cui attenersi quando andiamo al ristorante, diciamolo, sfiancano più delle fatiche di Ercole. Il punto è che veniamo privati della possibilità di godere fino in fondo, un po’ come guidare una Ferrari col freno a mano tirato (ammesso che lo abbiano, lo hanno?). Ma vengo al dunque:
1) Bistecca.
E per bistecca intendo la Fiorentina, alla brace, cotta come Dio comanda (minuto di racoglimento). Con forchetta e coltello si arriva fino ad un certo punto, poi parte il dilemma: come si fa a fingere disinteresse per gli ultimi brandelli di carne, i più succulenti, quelli attaccati all’osso? Osso che, essendo fatto a T, presenta una certa difficoltà a farsi scarnificare fino agli angoli. Impossibile tentare di farlo con nonchalance, non resta che autocensurarsi e alla domanda del cameriere «posso portare via il piatto?» rispondere con un mesto «s-sì» e guardare verso l’alto nel tentativo di contenere le lacrime.
2) Scarpetta.
In origine vietatissima, oggi, in seguito ai tumulti della fazione pro, pare si sia aperto qualche spiraglio. Interdizione assoluta durante un pranzo formale, permessa solo in famiglia ma solo a certe condizioni: per alcuni si deve infilzare il boccone di pane con la forchetta, per altri prendendolo con due dita (e senza arricciare il mignolo), in ogni caso non si “puccia” mai più di una volta. Come dire, piuttosto frustatemi. Ma si può rinunciare senza atroci sofferenze al raschiamento dei rimasugli di sugo dal piatto a mezzo pane? Se uno proprio vuole si può, ma, cielo, che agonia.
3) Dolce.
È una tendenza condivisa quasi trasversalmente dai ristoranti, più o meno griffati, pià o meno stellati. Parlo dei ghirigori nel piatto del dolce. Per favore no! Non adagiate la mia fetta di torta su un vassoio formato disco volante e le eventuali salsine mettetele SOPRA, non mezzo metro più in là, altrimenti come frenare l’istintinto di ramazzare ogni goccia fino a togliere la maiolica dalle stoviglie?
4) Gamberi.
Terminato il contenuto del carapace restano le teste. Succhiarle o non succhiarle? Questo è il problema. Il Galateo suggerisce di non curarsi di loro, punto. La consapevolezza di quel che mi perdo dice di non curarsi degli sguardi stravolti dei camerieri, fregarsene beatamente del nostro contegno da signore e applicarsi alla suzione voluttuosa. Al solo pensiero mi sento impazzire. Risolvo evitando di ordinare gamberi.
5) Pesce intero.
Spesso, nei ristoranti vicino al mare, ci viene data la possibilità di vedere il pesce prima di ordinarlo. Tutto ciò è fantastico, o almeno, lo è fino a quando non ci portano al tavolo un bel pescione cotto al forno o alla brace, con la pelle croccante e il grasso ben grondante, chiedendo con tono suadente: «signora, glielo posso sfilettare?». Nooo! Il pesce è mio e me lo sfiletto io. Non togliete la pelle, non mi private dei bocconi migliori che sono nella testa, intendo guance, mascella, occhi. Lascia a noi l’incombenza. Tuttavia, poiché la meticolosa autopsia non è ben vista in pubblico, lascio fare e osservo i poveri filetti ormai freddi nel piatto senza più attrattive.
Dentro casa, al riparo da sguardi indiscreti, penetro l’osso della bistecca fino a ungermi le orecchie, pratico la scarpetta selvaggia, lucido il piatto del dolce con precisione esagerata, aspiro rumorosamente il contenuto dei crostacei e cerco anche l’ultimo brandello di muscolo facciale del pesce.
Solo dopo posso dormire il sonno del giusto. Capita lo stesso a voi?
[Crediti | Link: Wikipedia, immagine: Jezebel]