Nel 2003, mentre un’ondata di caldo mortifero si abbatteva sull’Europa, il black-out metteva in ginocchio l’Italia, e io compravo la prima macchina fotografica decente, chef Anthony Genovese e la pasticciera alsaziana Marion Lichtle aprivano un ristorante in Via dei Banchi Vecchi a Roma: il Pagliaccio.
Oggi sono due le stelle Michelin conquistate nei 10 anni di grandi creazioni gastronomiche in una delle città italiane più difficili per la cucina di ricerca. Ma di questo parliamo dopo.
Il passaggio iniziatico dei 10 anni lo abbiamo festeggiato lunedì con gli chef, le brigate di sala e cucina, gli amici del Pagliaccio, simbolo ritratto in un quadro da sempre appeso alla parete della sala più ampia.
In un grande ristorante c’è solo un modo per celebrare. Mangiando. E così abbiamo fatto, attraverso un percorso di piatti storici scelti per incontrare i palati raffinati e quelli meno allenati. Così, dopo i consueti convenevoli (stuzzichini e bollicine) si è entrati nel vivo: Consommé di vitello, insalata di piselli, olio di pistacchi, pane tostato, yogurt di bufala, con Alta Langa brut 2005 “Cuveé 60” di Gancia. Piatto prepotentemente stagionale, verde, bello.
Quindi Gamberi croccanti, gelato di ricotta e gazpacho verde. Splendido nelle sue infinite variazioni di rosso, delicatissimo, dolce. In contrasto deciso con il Kerner Valle Isarco Lahnhof Tenute Costa 2011 in abbinamento.
Tortelli di erbe con burro, acciughe e fave a seguire: sapori decisi, meno compressi rispetto alla delicatezza delle portate precedenti, in equilibrio perfetto. Con Vigna di Gabri 2011 di Donnafugata.
Poi la Guancia di baccalà con capperi e Langhe Chardonnay 2010 “Piodilei” di Pio Cesare nel bicchiere, per prepararci all’ultima portata. Con grazia.
L’Entrecote di vitello con tartufo, asparagi, crema di limone e mandorle caramellate. Un altro successo, con Barolo cannubi Marchesi di Barolo 2008 e Brunello di Montalcino Banfi 2007.
Alla fine il dolce di Marion (e la piccola pasticceria), realizzato proprio per la festa dei 10 anni: Ringo con gelato al cioccolato bianco, sorbetto di fragole, fiori di sambuco e acacia. Non c’è proprio nulla da dire su questa pasticciera, veramente straordinaria anche quando opta per soluzioni più ammiccanti, eseguite alla perfezione. Con Verdicchio dei castelli di Jesi passito “Tordiruta” Moncaro 2007.
Quindi i saluti, le foto, i ringraziamenti, i baci, gli abbracci.
“Cosa dobbiamo fare noi cuochi con questa Roma?” Mi ha chiesto una volta Anthony Genovese, e non si riferiva alla formazione della giallorossa squadra di calcio. Eravamo seduti nel salottino del ristorante e l’espressione sul volto del cuoco franco-calabrese era preoccupata.
“E cosa ne so?”, credo di aver detto, e questo per evitare le solite frasi, tipo “fare sistema” “unire le forze” “comunicare” e bla bla.
Magari una risposta la merita il nostro chef, come regalo per i suoi 10 anni al Pagliaccio.
Il fatto è che Roma è una città strana, credetemi. Il giorno prima c’è il vuoto pneumatico della ristorazione di ricerca: solo due o tre grandi ristoranti di lusso e una moltitudine indefinibile di trattorie, pizzerie, birrerie per il grande pubblico. Il giorno dopo è un’esplosione di mangiatoie modaiole a prezzi accessibili (si fa per dire), con piatti contemporanei, vini alla moda, ingredienti dell’ultima ora, e un esercito di neo intenditori, neo foodies, neo appassionati, abituati a spendere meno.
Dove si collocano in questo caos i grandi cuochi come Anthony Genovese o anche Heinz Beck? Esattamente al centro tra il ricco imprenditore in vena di sfoggio, il gourmet dell’ultim’ora, spesso squattrinato, e il più comune cliente romano della serie: “matustaifori160euripemagnàdufoiedensalata”.
Che vuol dire: “Ma tu sei matto, 160 € per farmi mangiare due foglie di insalata”.
I ristoranti che usano splendide materie prime manipolate con maestria sembrano attraversare, almeno qui, un momento difficile. E non ho soluzioni da proporre.
Lì fuori, qualcuno?
[Crediti | Immagini di copertina: Cibando, tutte le altre immagini: Lorenza Fumelli]