Il Joia di Milano è il ristorante vegetariano per eccellenza. Stellato Michelin dal 1996 — per quanto la cosa mi tranquillizzi poco –, è guidato con mano ispirata dallo chef Pietro Leemann, una specie di filosofo naturale applicato ai fornelli. Ci sono andato con curiosità scoprendo solo dopo la polemica che l’anno scorso, proprio su Dissapore, ha coinvolto Valerio Massimo Visintin, critico del Corriere della Sera oltre che autore di una memorabile stroncatura, e lo stesso Leemann. Premesse: non sono un fanatico della carne, vivo nelle Marche, dove la concentrazione di ristoranti macrobiotici è alle stelle, sono consapevole che in una cucina senza carne il rischio di sentirsi triste sia percentualmente elevato.
Entrando non si può dire che il Joia annichilisca. L’attenzione per il dettaglio costeggia lo zero. C’è una stufa nascosta tra i tavoli della sala. Le luci caldissime stancano prima ancora di sedersi. E in generale, il contenuto clima di eleganza, diciamo così, conferma una verità: Leemann non ha una vita precedente da arredatore di interni.
Menù e carta dei vini sono il campanello di allarme di una cena a doppia velocità. Da una parte, cucina riflessiva e meditata, estrema nel rinunciare a ingredienti in apparenza vitali, tecnica e concettualmente rischiosa. Dall’altra, carta dei vini iperclassica già nell’impaginazione da Encyclopedia Britannica: 35 annate di Tignanello, 28 di Sassicaia, inevitabili ricarichi da Milano centro (il Kurni marchigiano a oltre 120 euro, Gravner a 96 e via così).
I nomi dei piatti mi piaciono, e qui a rischiare sono io. “Umami, il sesto gusto che affascina”, può diventare oggi “Raviolo di riso, sfera di spinaci e sesamo, sushi di orzo e shitaké, tagliolini di alghe e carote novelle, con i gusti orientali che tutti amiamo”, e domani “Raviolo di cavolo cinese, sfera di giovani rape e sesamo, sushi di orzo e avocado, tagliolini di kombu e daikon, con i gusti orientali che tutti amiamo”. Insomma, i pragmatici apprezzeranno la sintesi, i poetici l’analisi, i lamentosi si lamenteranno ma sono cavoli loro. Di stagione, comunque.
Menù intermedio “L’enfasi della natura” a 80 euro e 3 vini abbinati per 30. Infilare 2 vini made in Oscar Farinetti, quello di Eataly, ma anche delle Cantine Fontanafredda (Alta Langa Vigna Gatinera 2004 – discreto ma niente di più – e Barolo 2004 Mirafiore, godibile) è un insulto alla sommellerie minimamente personale e non basta infilarci in mezzo il Breg 2004 di Gravner per dare spessore alle scelte. Il servizio è cortese e disponibile, qualche piccola distrazione col pane che latita non intacca la sostanza di 8 piatti sbalorditivi per oltre la metà. Al contrario, “Raclette” è proprio dimenticabile.
“Di non solo pane” è una panzanella atipica. I toni acidi si intrecciano, wasabi e salsa di zucca, lamponi, aceto e cannellini articolano un sapore freddo, duro, personale, riuscito. Piace a ogni cucchiaiata di più.
“L’uovo apparente” tiene alta l’attenzione: è un uovo di ricotta di capra del Boscasso (azienda agricola di culto) fonduta di scorzonera dolce (per chi non ha parenti che fanno Linneo di cognome, buon divertimento, ndr) e tre sorprese. Rientro nel 20% di clienti che dopo il finto-uovo figo e buono allo spasimo, intuisce che nel piatto sottostante c’è dell’altro. Non posso paragonare il rafano piccante e acre che mi aspetta al dolcetto consolatorio della nonna, qui bisogna lottare col sapore per godere.
Il nirvana arriva col piatto successivo e aggiunta richiesta. “Riflessione su dove vorrei essere, qui” – anche detto “Müsli di mais e verdure con il latte di cocco preparato da noi, misto delicato di spezie himalayane, zucca e avocado” – è un orgasmo per chi evita latticini e glutine.
“Caro Gualtiero,”, invece, è un omaggio al Maestro di Leemann, Gualtiero Marchesi, scolpito a suon di “Crema di patate con pesto di nocciole piemontesi, schiuma di tartufo pregiato di Norcia, cardi, chips e crema di patate della val di Gresta”. Per non saper né leggere né scrivere me ne sono fatto un piatto e mezzo, è contro la mia etica lasciare consistenze e sapori perfetti. Per certi piatti non servirebbe neanche la lavastoviglie.
Non vi tedio col menù minuto per minuto, ho in odio la ginecologia gastronomica, ma sappiate che la musica continua. Passano medaglioni di saraceno, cialde di lenticchie, emulsione di carciofi in ordine sparso e lo stile non cambia, si riconosce, una cucina intransigente ma buona di una bontà quasi infantile.
Chiudo con “Nuovo mondo”, il mio dolce con cioccolato Vestri, latte di mandorle, oro, quark, banana, fagioli giapponesi, vaniglia e panna. Invece del cucchiaino avrei chiesto una pala ma sono dettagli.
Il conto dice 273 euro in due, inclusi i 25 (per 2) del piatto aggiunto. Uscendo fatico a ricordare che posto e vini sono un po’ così, al Joia si sta bene, e se non ci andate azzoppati da assurdi pregiudizi capirete quanto sia lontano dal “Qualsiasi Cosa Purché Si Mangi Vegetariano”. Consigliato.