Nessuno va al ristorante perché ha fame: quando hai fame entri dal prestinaio e ti fai una pagina di focaccia, o ti fermi all’autogrill; o entri in trattoria per un piatto di pasta inondato di sugo. Vai al ristorante per stare in compagnia, per passare una serata, per imburrare un incontro alle prime battute. Per fare affari, per festeggiare una ricorrenza, perché non hai voglia di rassettare la cucina. Più raramente vai al ristorante per godere di una cucina diversa, in qualche caso migliore di quella di casa tua. Se poi vai al ristorante spesso, diciamo una o più volte la settimana, cominci a diventare un cliente esigente: e quello che cerchi diventa sempre più sottile e sfumato. Come l’audiofilo cerca quella sfumatura nel suono del violino, quel vibrato che esce dalle dita del musicista proprio come se ce l’avessi lì, l’appassionato gurmè cerca una sensazione, una palpitazione, anche perché no, un’emozione.
Dunque quando ti siedi al tavolo e consulti la Minuta delle Vivande, che qualche distratto si ostina a chiamare approssimativamente menù, ti prefiguri l’esperienza che ti attende: cercando di compenetrarti nello spirito della Casa che ti ospita, che non è solo una Tavola, ma anche e soprattutto persone. E leggi i nomi dei piatti, che tra le mura domestiche sono una scelta ovvia: pasta al ragù, polenta e funghi, bistecca ai ferri; ma diventano una vera e propria lettera d’intenti, un vero e proprio biglietto da visita per il cuoco che ti sazierà tra poco quando sei al ristorante.
Scelta degli ingredienti, architettura dei titoli, descrizione delle preparazioni sono una scelta di comunicazione, una forma di espressione. Dall’asciutto “sandwich di spigola” di Pierangelini alle romanzate descrizioni di qualche artista verboso, come il Guancino di vacca molisana cotto alla vecchia maniera in coccio con vino rosso Fulmine della Boscaiola, o la Nepitella e crescione raccolti all’alba sulle pendici dei monti Lessini e sfrombolè di cavolbroccoli al pepe azzurro delle isole Fiji. Cui ovviamente il cameriere aggiungerà qualche dettaglio, on demand o mentre serve il piatto.
Allora diciamolo: quel tonno che compare ormai anche nella lista del Dopolavoro Ferroviario, quel Fuàgrà che ci deve essere per forza come se un pianista non fosse sdoganato senza aver suonato almeno una volta Per Elisa, per favore va bene anche senza. Cerchiamo di sfuggire l’onda, che il cliente non s’areni alla terza riga pensando “aaancora!” quando vede l’ennesima carbonara di pesce, l’ennesima orata in crosta dorata, l’ennesimo sformatino di verdurine in salsina di pisellini con pomodorini fini. E tartufo nero.
Amiamo dunque questi cuochi esploratori, minatori di materie prima che ci mettono in carta cose che non conosciamo; rallegriamoci di dover chiedere cos’è la sbiraglia o il tastasale. Godiamo di questo paese bislacco che sa raccontare in ogni piatto una pagina di storia.
Anche senza tonno, anche senza fuàgrà.
Immagine: collezione Menù storici Academia Barilla