Tre ragioni valide per cui non posso essere tacciato di gastrofighettismo radical-chic:
1) Sono nato a Roma in zona appio-tuscolano.
2) Non ho mai avuto un conto in banca che si fregiasse di questo nome.
3) Sono autisticamente pigro e quando mi affranco dalla mia condizione è la paternità a costringermi a scendere a patti con le cose del mondo.
Tre ragioni per cui rischio invece l’appellativo di cui sopra:
1) Ricerca ossessiva della meta vacanziera antimassificante.
2) Programmazione dei viaggi rispetto al mangiare e bere.
3) Attegiamento di mal celato disprezzo per code, all-inclusive e small talking.
Nel mezzo di questa oziosa classificazione, una vacanza: breve, salvifica e fresca in Alto Adige. Improvvisata (vedi prima sentenza, punto 3) e familiarmente mediata, con il solito personale sguardo alle cantine lungo il tragitto (vedi seconda sentenza, punto 2). La meta: non Marte, dove sta arrivando con spettacolare ammartaggio Curiosity, il robot spaziale (rover) della NASA, ma giù di lì, un campeggio non prenotato, in una piccola tenda, con compagna e figlia di tre anni. Perché se c’è una cosa che odio più degli annichilenti servizi sull’esodo e il controesodo italico (o sulla moderna variante delle vacanze ai tempi dei veri esodati, con la nostalgia per le code e le spiaggie carnaio) è essere uno di quelli di cui parlano i servizi. Materiale da tg d’agosto mai, piuttosto chiudiamo la seconda sentenza, chiamatemi radical-chic e amen.
Eppure essere l’uomo massa a volte è una logica conseguenza dell’ambiente circostante e la rinuncia – brutale e sistematica – dei propri progetti gastropedanti è ineluttabile. Partire troppo a ridosso del pranzo per imporre alla prole un’uscita casuale dall’autostrada alla ricerca di un posto dove prendere una sola abissale? Che fare? La domanda leniniana ci mette davanti a un bivio chiamato autogrill.
Ci serve davvero quello che Luca Bottura su Sette, nella sua disamina del luogo autostradale per eccellenza, ha definito brillantemente “un bagno di contemporaneità estrema”? Dobbiamo davvero immergerci in quel tripudio di rustichelle, camerieri-cassieri esausti, best-seller alla cassa, salumi sempre al 50% di sconto e acque sovraprezzate per capire che, specie in vacanza, siamo come gli altri? O forse la cosa serve a chi radical-chic è davvero e questo mondo lo guarda dall’alto in basso. Come dire, riconosco che anche certa anti-italianità racchiude dei riti irrinunciabili e a questo punto mi tengo i rituali originari.
Però rimane che in Autogrill si mangia mediamente male e se per sfuggirgli capitate come il sottoscritto al My chef rischiate di porvi domande un po’ tristi. Tipo:
— Perché fare una catena che è il surrogato in piccolo proprio dell’Autogrill?
— Perché non distinguersi?
— Perché i panini hanno la solita fetta micragnosa di affettato, il toast è vagamente canceroso e dolciastro per abuso di Emmental di basso profilo?
— Perché il caffè è uno sciaquabudella e i prezzi non valgono l’offerta?
— E perché in Alto Adige la muscolare ristorazione mortifica l’eccellenza vinicola della regione con vini della casa nella migliore delle ipotesi mediocri?
— Perché ‘sto speck non lo centelliniamo un po’ invece di buttarlo in tutti i piatti?
— Perché chiamano polpettone un megawurstel che ridefinisce l’idea di pesantezza?
— Perché i tedeschi si fanno il bagno in piscina alle 7.30 di mattina con 16 gradi?
Domande insolute di una breve ma piacevole vacanza.
[Crediti | Link: Facebook, immagine: Sette, Corriere della Sera]